Vai al contenuto

Quello che stiamo vivendo in queste settimane è qualcosa che non ha precedenti per la nostra generazione e forse neanche per quella precedente. Ma persino il confronto con i periodi delle guerre mondiali potrebbe portarci fuori strada. Nonostante gli sproloqui nazionalisti, gli inni nazionali, e i militari nelle strade, non siamo in guerra. La minaccia qui non è il bombardamento, la paura durante un’epidemia è qualcosa di più introspettivo, e al contrario della guerra dove l’attesa e l’incubo che il tuo soffitto cada in mille pezzi ci porta a stare vicini e avvinghiati in un caldo abbraccio con le persone a noi care, la risposta emotiva al contagio è una sana e responsabile distanza da chi ci sta accanto. Un aperitivo analcolico di quello che potrebbe essere il collasso della civiltà moderna, servito con tutte le precauzioni del caso: nonostante la scarsità delle bevande gli stuzzichini sono comunque garantiti. Ma lo scenario è davanti ai nostri occhi e ciò che più dovrebbe preoccupare non è tanto la risposta repressiva dello Stato e i suoi dettami, a quello forse dovremmo esserci almeno un po’ abituati, ma alla sconcertante risposta della massa addomesticata, ormai incapace di rispondere per conto proprio ad alcun che se non al proprio smartphone. E come in tutte le epoche passate, quando il panico si diffonde nelle masse queste si apprestano alla caccia: all’untore, alle streghe e ai non allineati ai dettami del “bene comune”.

È ormai evidente cosa lega oggigiorno in maniera quasi totalizzante le masse, l’opinione pubblica, la politica, i mass media. Qualcosa trasversale ad ogni colore politico, dai destri ai sinistri, dagli intellettuali ai cafoni di quartiere, qualcosa che in una società sempre più divisa tiene tutti insieme appassionatamente: la salute, o la non salute, o per essere più precisi la Scienza medica. Chi si è opposto alla recente campagna di obbligatorietà dei vaccini è stato distrutto, deriso, represso, attaccato da ogni punto di vista grazie a un vittimismo becero che ha reso i genitori che hanno fatto resistenza assassini di poveri bambini con gravi patologie usando come veicolo la propria prole a mo’ di untori. E quest’attacco è arrivato persino da alcuni così detti fautori dell’anarchia, come la FAI e riviste affini, mentre anche tutto il resto di un movimento radicale più ampio (resto degli anarchici compresi) non ha preso neanche in considerazione la questione.

Non c’e da sorprendersi quindi che la diffusione del Covid19 abbia travolto e avvolto nel terrore la quasi totalità delle persone civilizzate di quasi tutto il mondo. Ma non tutti ovviamente credono alla favola istituzionale, voci fuori dal coro e pensieri in controtendenza ce ne sono. Nella psicosi del confinamento domestico, nel mondo dentro la rete di internet girano video, testi, messaggi. Teorie cospirazioniste, confutazione dei dati, visioni alternative della salute e quant’altro. Inutile entrare nei dettagli, se state leggendo questo testo avrete letto e visto già molto altro.

Ogni epidemia della storia si diffonde all’interno di società che hanno in diverse maniere degradato il loro modo di vivere, partendo da luoghi spesso sovraffollati, inquinati, dove la maggioranza delle persone vive con distacco e degrado il loro stato di salute generale e abituale. Dove l’approvvigionamento dei bisogni primari, cibo e tecnologie atte alla sopravvivenza, non è più nelle mani di piccole comunità con modalità più o meno diffuse all’interno della popolazione ma sono sempre più accentrate nelle mani dei pochi gruppi elitari dei vari settori. Più ci si allontana dalla produzione diretta del cibo che si mangia o al peggio dalla consapevolezza di sapere almeno da dove questo arrivi, più si perde la capacità di gestire in modo autonomo la propria salute e più quest’ultima diventa precaria. Illuminante da questo punto di vista, ma in generale dal punto di vista dell’alimentazione, è il lavoro di Weston A. Price che negli anni ‘30 del novecento girò il mondo e incontrò numerose popolazioni “primitive” (definite tali perché ancora si producevano o si procacciavano la maggior parte del cibo) con l’intento di scoprire cosa mangiassero e qual’era il loro stato di salute. Era un periodo storico dove molte di queste popolazioni stavano man mano venendo in contatto con il progresso e il cibo industriale. Notò che quando queste popolazioni mangiavano il “loro cibo” il loro stato di salute era ottimale, i denti perfettamente posizionati e senza carie (lui era un dentista) e malattie ed epidemie che dilagavano nel resto delle società che andavano via via globalizzandosi non si presentavano invece fra queste. Quando invece le stesse etnie di persone venivano in contatto con il progresso, la ferrovia o la strada, e iniziavano ad avere a disposizione i cibi moderni come zucchero, farina bianca, marmellate, cioccolata, e cibi in scatola, la loro salute fisica e mentale precipitava. Le malattie che oggi consideriamo “normali” come quelle di origine cardio-vascolare, diabete, cancro, carie, non erano affatto normali tra gli individui di queste popolazioni. Interessante anche il fatto che in queste comunità “primitive” la consapevolezza sulle proprietà dei cibi era molto alta e quelli più nutrienti venivano destinati alle donne durante la gravidanza o ai bambini in fase di sviluppo. Il dottor Price notò come la dieta di questi popoli fosse molto più ricca di vitamine (o attivatori) liposolubili, in particolare la vitamina A, D e K2 che troviamo abbondantemente nel pesce, negli organi interni e nel grasso di animali che sono cresciuti pascolando all’aperto. La lezione che possiamo trarre da questi popoli del passato e da molte altre comunità indigene che ancora popolano angoli di questo pianeta è enorme, in termini di autoproduzione del cibo, di autogestione della salute e di indipendenza dal sistema ipertecnologico globalizzato.

Nel corso di meno di un secolo questo residuo di consapevolezza e di pratiche di vita è quasi del tutto scomparso nel mondo civilizzato e globalizzato e le conseguenze sono sempre più devastanti. Ma persa questa consapevolezza si perde anche la capacità di porsi le giuste domande. Ci si chiede quindi se il virus è mutato e in che cosa piuttosto di capire come noi e lo stato di salute del nostro sistema immunitario siamo mutati. La maggior parte della gente accetta di essere relegata in casa, ad abbuffarsi probabilmente di cibo, collegati tutto il giorno a internet in mezzo alle radiazioni elettromagnetiche sempre più invadenti del WI-FI, senza prendere il sole e stare all’aria aperta, in uno stato sempre maggiore di stress e psicosi, tutte cose che aggravano lo stato del sistema immunitario. La criticità dei contagiati quindi aumenta, ma la colpa viene data al virus che è più cattivo e comincia a prendersela con i più giovani.

Più che metterci una mascherina sul viso dovremo toglierci le bende dagli occhi. Ma forse non è il momento giusto, bisogna prenderne atto. Inutile dire a chi si è tagliato e sta sanguinando che dovrebbe imparare ad usare meglio il coltello.

Non c’è da stupirsi, come già detto prima, che gli epicentri della pandemia siano spesso aree altamente inquinate e con un’alta densità di popolazione. In una parola nelle città. Ed è sempre stato così. La civiltà è la società degli abitanti delle città, sinonimo di progresso e innovazione tecnologica. Nondimeno dovrebbe essere ormai chiaro che è anche il luogo dove lo stato di salute dei suoi abitanti diviene sempre più debilitante. Ma nonostante queste evidenze ormai eloquenti, e questa pandemia è soltanto l’ultimo di una lunghissima serie di eventi che hanno portato alla luce questa innegabile verità, la maggior parte delle persone civilizzate, e la maggior parte anche dei movimenti radicali continua a pensare che è questa la casa dell’uomo moderno e che sia impensabile ripensare un modo di vivere differente. Sarà quindi la tecnologia a salvare dal disastro questo mondo globalizzato al collasso.

E su questo non c’è alcun dubbio. La risposta a tutti i nostri problemi attuali sarà sempre più tecnologia. Lo stiamo vedendo ora durante l’epidemia, nuove tecnologie mediche (farmaci e vaccini), nuove tecnologie per l’educazione scolastica a distanza, nuove tecnologie di controllo (apps, droni, ecc…). E questo è solo l’inizio. Dopo questa esperienza chi non vorrà la diffusione del 5G per migliorare la connettività globale, chi non vorrà obbligare tutte le persone di questo mondo a vaccinarsi con ogni sorta di vaccino per salvaguardare le fasce più deboli della società (fasce in continua espansione visto la degenerazione psico-fisica attuale).

La via per il transumanesimo, la fusione dell’uomo con la macchina, è ormai aperta da molto tempo, e da un certo punto di vista è l’unica via per salvare la società industriale e tecnocentrica moderna e l’essere umano che le dà vita.

L’altra via, l’unica altra rimasta, è rinnegare tutto questo sistema ipertecnologico, la città, la vita moderna, la scienza medica, e prendersene tutte le responsabilità e conseguenze del caso. La civiltà moderna è insostenibile, c’è chi lo dice e lo sostiene ormai da decenni. Ma non ci si può certo aspettare un tale approccio dalle masse addomesticate che non vedono l’ora di tornare ai loro happy hours. Questo appello è rivolto principalmente ai movimenti radicali che nelle loro differenze cercano un cambiamento concreto della vita di tutti i giorni. Per quanto ancora bisognerà credere nella tecnologia, nell’assistenza sanitaria, nella scuola, nella società dei diritti. Il lavoro necessario per intraprendere questo cammino è immenso, faticoso e intergenerazionale. Ma l’alternativa sarà sempre e soltanto più asservimento alla tecnologia e alle élite che la governano. Riprendersi in mano la nostra salute e quindi l’approvvigionamento di cibo salutare è un passo decisivo.

La nostra dipendenza dal sistema di produzione e distribuzione è uno dei nostri più grandi limiti. E sono molti i miti che dovremo sfatare, oltre a quello tecnologico e del progresso, per imbarcarci in questa impresa. E soprattutto disintossicarci dalle politiche identitarie di ogni tipo. Ma questo non è esattamente un appello per creare un nuovo movimento globale anti-civ. È un invito a creare comunità stabili che puntino a riprendersi in mano le proprie capacità, a partire dalla nutrizione e dalla salute, orizzontali ed egualitarie, in grado di generare solidarietà e mutuo aiuto sia all’interno che verso altre comunità con caratteristiche simili. Non è per niente un’idea nuova, è l’idea anarchica nella sua essenza, ciò che molte comunità umane indigene ancora presenti su questo pianeta fanno da millenni.

Avremo un compito molto urgente appena questa emergenza sarà finita e si avrà la possibilità di tornare liberamente nelle strade in gran numero. Fare manifestazioni e azioni dirette di ogni tipo per mettere le mani avanti su tante cose che vorranno imporci da qui a breve: 5G, vaccinazioni obbligatorie e implemento tecnologico securitario. Sarà un primo passo per far comprendere che la nostra salute non dipende dall’OMS e dai nuovi inquisitori del PTS (Patto trasversale per la scienza, quelli che hanno il compito di definire e denunciare come fake news tutto quello che si oppone al sistema sanitario istituzionalizzato). Qualcuno sta cercando di farlo già ora in “clandestinità”, ma sarà dopo che non potremo più permetterci il lusso di stare in silenzio.

La nave dei folli si schianterà contro l’iceberg, per allora dovremo aver imparato a nuotare.

Hirundo, Marzo 2020

È assolutamente necessario chiarire il termine vaccinazione in rapporto a quello di immunizzazione. I media e il mondo farmaceutico hanno influenzato il pubblico facendogli credere che vaccinazione sia equivalente ad immunizzazione. Per quanto mi riguarda, sono favorevole all’immunizzazione. Vaccinare significa iniettare sostanze nel corpo. Questa pratica nonimmunizza. Sono due cose completamente diverse. La creazione dell’immunizzazione è un processo naturale. Il corpo utilizza diversi mezzi di difesa. La prima linea di difesa è la pelle, a cui spetta il compito di fermare tutto ciò che potrebbe essere nocivo al corpo. Con un vaccino, questa legge di natura viene completamente ignorata e raggirata, dato che si iniettano prodotti a cui la pelle impedirebbe di penetrare nel corpo. Abbiamo anche un sistema respiratorio che è parte integrante delle difese del corpo. Si tossisce, si starnutisce, ci si soffia il naso per poter espellere il potenziale “invasore”. La tosse e gli starnuti sono il risultato di un sistema immunitario che funziona. Non si tratta di reprimere queste reazioni con degli antipiretici, degli antistaminici, ecc. Se utilizzate questi mezzi rischiate di facilitare il ruolo degli “invasori”. Disponiamo anche di un sistema linfatico che, in associazione con il lavoro degli intestini, potrà lottare contro gli “invasori” più temibili. Se il vostro sistema immunitario è indebolito al punto da permettere agli “invasori” di superare queste barriere, questi — vivi o morti — potranno penetrare nel flusso sanguigno. Una volta nel sangue, questi “invasori” possono raggiungere qualsiasi parte del corpo. Cosa per niente buona! Un vaccino vìola tutte le leggi di difesa immunitaria naturali. Il vaccino fa penetrare un potenziale patogeno contenente ogni genere di ingredienti tossici (alluminio, formaldeide, ecc.) direttamente nel flusso sanguigno. Questo non potrebbe mai accadere con una immunizzazione naturale ben costruita. Quest’ultima frase è di per sé una specie di contraddizione. L'immunizzazione è una cosa naturale. I vaccini sono cose artificiali.

Kurt Perkins

Allineati di paura ringraziamo

la paura che ci salva dalla follia.

Decisione e coraggio è merce rara

e la vita senza vita è più sicura.

Avventurieri ormai senza avventura

combattiamo, allineati di paura,

ironici fantasmi, alla ricerca

di ciò che fummo, di ciò che non saremo.

Allineati di paura, con voce fioca,

col cuore fra i denti, siamo

i fantasmi di noi stessi.

Gregge che la paura insegue,

viviamo così vicini e così soli

che della vita abbiamo perso il senso.   (Alexandre O'Neill, 1962)  

Si dice che nel corso della riunione annuale del famigerato Club Bilderberger — il gotha mondiale della politica, dell'economia e della finanza — tenutasi nel maggio 1992 ad Evian, in Francia, l'ex-segretario di Stato statunitense Henry Kissinger abbia dichiarato a proposito della grande rivolta che poche settimane prima aveva infiammato Los Angeles: «Se delle truppe delle Nazioni Unite entrassero a Los Angeles per restaurare l'ordine, gli americani oggi si sentirebbero oltraggiati domani ne sarebbero riconoscenti. Ciò avverrebbe soprattutto se li si informasse che un attacco proveniente dall'aldilà minaccia la loro esistenza. In tal caso i popoli della terra pregherebbero i propri leader di liberarli da quei malvagi. Ciò che tutti gli uomini temono è l'ignoto. Quando verrà presentato loro questo scenario, saranno pronti ad abbandonare i loro diritti individuali in favore del proprio benessere, garantito dal loro governo mondiale». Autentica o apocrifa che sia questa citazione, esprime perfettamente un caposaldo della ragione di Stato. Per ottenere obbedienza, nulla è più efficace dell'arma della paura. Il terrore paralizza i movimenti, ottunde la mente, rende deboli e indifesi. Ammutolisce la critica e spinge tutti ad invocare aiuto, senza guardare in faccia i soccorritori e senza metterne in dubbio intenzioni e mezzi. Questo terrore così funzionale deve quindi essere creato ed alimentato in permanenza. A differenza dei regimi dittatoriali, che storicamente si contraddistinguono proprio perché è lo stesso governo ad esercitare il terrore sui propri cittadini-sudditi, nelle democrazie il panico viene creato attraverso l'evocazione di una minaccia esterna. Agitandone lo spauracchio, lo Stato può ritagliarsi e recitare il ruolo di eroe salvatore — da ripagare con gratitudine, e a cui essere riconoscenti per la vita. Ciò spiega il motivo per cui, all'interno della grande rappresentazione mediatica della paura, il palcoscenico non rimane mai vuoto. Personaggi terrificanti si susseguono uno dopo l'altro, si incrociano, si accoppiano, prolificano pure, accalcandosi talvolta nello stesso momento e nello stesso spazio. Ma il canovaccio resta sempre lo stesso. Un grave pericolo incombe su tutti noi, onnipresente, invisibile, pronto a colpirci all'improvviso. Bisogna stare attenti, e quindi bisogna innanzitutto mettersi sull'attenti. Ogni angolo buio che attraversiamo potrebbe diventare la scena di un delitto — ben vengano i controlli che ci difendono da assassini e stupratori. Ogni straniero in cui ci imbattiamo (soprattutto se povero) potrebbe essere un terrorista — ben vengano i centri di identificazione, le deportazioni e la chiusura delle frontiere che ci proteggono dai kamikaze. Persino ogni abbraccio e ogni bacio che ci scambiamo potrebbe essere fatale — ben vengano le vaccinazioni di massa (come stanno cercando di fare in quest'ultimo periodo in Toscana per debellare una meningite che dicono abbia causato una decina di morti in quindici mesi, compreso chi è morto subito dopo essersi fatto vaccinare!) per prevenire le malattie. Per riacquistare pace & serenità basta mettersi nelle mani degli esperti, dei professionisti, di chi ha le conoscenze e le competenze in materia. In una parola, nelle mani dello Stato. Quello Stato da cui siamo sempre più dipendenti e che, sebbene mostri ogni giorno di più la propria infamia, costituisce il punto di riferimento costante e ineludibile. Biasimiamo i suoi pretoriani quando torturano e ammazzano i malcapitati che finiscono nelle loro grinfie, ma poi li acclamiamo quando temiamo che qualcuno possa disturbare il nostro sonno. Insultiamo i suoi funzionari quando veniamo a conoscenza delle quotidiane malefatte che commettono, ma poi li votiamo quando loro stessi ci convocano alle urne.  Lo Stato prima inocula il veleno che causa la morte sociale, poi offre l'antidoto che promette uno straccio di sopravvivenza. Pensiamo ad esempio alla «minaccia» odierna che sarebbe costituita dagli stranieri, da quelle masse di profughi che premono ai confini europei così come da quei pochi terroristi che si fanno saltare in aria nelle strade europee (non sono affatto da equiparare, lo sanno tutti, ma è molto più facile presentare i primi come infiltrati dai secondi per suscitare una comune esecrazione). Prima i loro paesi vengono invasi, colonizzati, sfruttati, affamati, bombardati — e da chi? —, poi quando chi vi abita scappa qui disperato a portarci la miseria in casa, quando chi vi combatte viene qui furioso a portarci la guerra in casa... ci stringiamo attorno allo Stato in attesa di misure razziste e poliziesche che dovrebbero salvarci. È quanto accade in tutti gli ambiti, nessuno escluso. Chi ha costruito armi e centrali nucleari è lo stesso che si invoca in caso di fuga di radiazioni. Chi ha autorizzato il commercio e l'uso di sostanze tossiche è lo stesso da cui si pretende la bonifica dei territori che ha contaminato. Chi ha creato in laboratorio virus letali è lo stesso a cui ci si affida per debellarli con cure miracolose. Il mondo della politica, dell'economia, della finanza, della scienza... ha rovinato la nostra vita, privandola di ogni bellezza e passione, riducendola a un quotidiano trascinare di catene per elemosinare una briciola e un sorriso. Ed è a questo stesso mondo composto da tanti carnefici non lordati di sangue, ben presentabili nei loro doppiopetto e nei loro camici bianchi, che ci rivolgiamo per avere protezione dai pericoli che loro stessi hanno provocato.  Nemmeno il flusso continuo di informazioni contrastanti sull'effettiva natura delle minacce che graverebbero su di noi pare consigliare una sana diffidenza nei confronti delle dichiarazioni delle autorità, tanto meno induce a mettere in discussione queste campagne del terrore che vengono periodicamente scatenate. Al contrario, non fa che alimentare l'ansia, quell'apprensione o spiacevole tensione provocata dall'intimo presagio di un pericolo imminente e di origine sconosciuta. E l'ansia è sempre sproporzionata allo stimolo noto, alla minaccia e al pericolo che ci sovrastano realmente. E si finisce per ritrovarsi in un paesello di campagna a scrutarsi continuamente attorno per timore del «Salah» di turno. A detta degli stessi esperti, esistono due forme di paura. La cosiddetta «paura primaria» è quella che stimola e fa reagire l'individuo, che in questo modo riesce a controllare e a superare la minaccia. La cosiddetta «paura secondaria» invece è quella che paralizza l'individuo e lo rende inerme, passivo di fronte a quanto lo turba. Non c'è reazione, c'è solo annichilimento. Ed è quest'ultima paura ad essere oggi alimentata in tutte le maniere, con l'evocazione di scenari da incubo e di complicazioni giudicate insormontabili. In realtà, il pericolo più terribile che incombe è quello che si riassume nel concetto di fatalità. L'alta tecnologizzazione dell'esistente, la sua apparente invincibilità, la sensazione che nulla sia possibile, l'inutilità delle parole e l'inefficacia delle azioni, l'atomizzazione e le sue conseguenze, ed infine la potenza assoluta della polizia, del denaro e dello Stato, costringono la rabbia, il rifiuto e i loro sviluppi critici a rimanere sul terreno della passività. È questa la minaccia che dovremmo scongiurare. Perché, o ci arrendiamo alla paura o la combattiamo. Non possiamo andarle incontro a metà strada.

Finimondo, 12/4/16

C'è un'altra pandemia oggi in corso in tutto il pianeta. L'OMS non se ne occupa minimamente, non essendo di sua competenza, e i media cercano di farla passare sotto silenzio o di minimizzarla. Ma i governi del mondo intero sono preoccupati del rischio che comporta. Questa pandemia si sta diffondendo sulla scia del virus biologico che oggi sta riempiendo gli ospedali. Passa dove passa il Covid-19, insomma. Anch'essa toglie il fiato. La paura del contagio sta infatti provocando il contagio della rabbia. I primi sintomi di malessere tendono ad aggravarsi, trasformandosi prima in frustrazione, poi in disperazione, infine in rabbia. Rabbia per la scomparsa, su decreto sanitario, delle ultime briciole di sopravvivenza rimaste.  È significativo che all'annuncio delle misure restrittive prese dalle autorità per prevenire il dilagare dell'epidemia, una sorta di arresti domiciliari volontari, siano stati proprio coloro che la reclusione dietro quattro mura la soffrono già quotidianamente per costrizione — i detenuti — a dare fuoco alle polveri. Vedersi privare dei pochi contatti umani loro rimasti, per di più col rischio di fare la fine dei topi in trappola, è sfociato in ciò che non si verificava da anni. L'immediata trasformazione della rassegnazione in furore.  Tutto è iniziato nel paese occidentale più colpito dal virus, l'Italia, dove lo scorso 9 marzo sono scoppiate sommosse in una trentina di prigioni subito dopo la sospensione dei colloqui con i familiari. Nel corso dei disordini dodici detenuti sono morti — quasi tutti «per overdose», secondo le infami veline ministeriali — innumerevoli altri sono stati massacrati. In una città, a Foggia, 77 detenuti sono riusciti ad approfittare dell'occasione per evadere (anche se per molti di loro, purtroppo, la libertà è durata troppo poco). Una notizia simile non poteva che fare il giro del mondo e chissà che non abbia ispirato le proteste che, a partire da quel momento, si sono diffuse fra i segregati vivi dei quattro continenti: battiture, scioperi della fame, rifiuto di rientrare in cella dopo l'aria... Ma non solo. In Asia, la mattina del 16 marzo gli agenti delle squadre anti-sommossa fanno irruzione in due delle maggiori carceri del Libano, a Roumieh e Zahle, per riportare la calma; alcuni testimoni parlano di inferriate divelte, di colonne di fumo, di detenuti feriti. In America Latina, il 18 marzo, avviene un'evasione di massa dal carcere di San Carlos (Zulia), in Venezuela, nel corso di una sommossa scoppiata anche là subito dopo l'annuncio delle misure restrittive: 84 detenuti riescono ad evadere, 10 vengono abbattuti durante il tentativo. Il giorno dopo, 19 marzo, anche alcuni prigionieri del carcere di Santiago, in Cile, tentano la fuga. Dopo aver preso il controllo del loro settore, dato fuoco al posto di guardia ed aperto i cancelli del corridoio, si scontrano con le guardie. Il tentativo di fuga fallisce e viene duramente represso. In Africa, il 20 marzo, c’è un altro tentativo di evasione di massa dal carcere Amsinéné di N'Djamena, capitale del Ciad. Ancora in America Latina, il 22 marzo sono i detenuti del carcere La Modelo di Bogotà, in Colombia, ad insorgere. È un massacro: 23 morti e 83 feriti fra i detenuti. Di nuovo in Europa, il 23 marzo un'ala del carcere scozzese di Addiewell finisce in mano ai rivoltosi, e viene devastata. Negli Stati Uniti, quello stesso giorno 9 detenute scappano dal carcere femminile di Pierre (South Dakota) lo stesso giorno in cui una loro compagna di sventura è risultata positiva al tampone (quattro di loro verranno catturate nei giorni seguenti). Sempre il 23 marzo, 14 detenuti evadono da un carcere della contea di Yakima (Washington DC) poco dopo l'annuncio del governatore sull'obbligo di rimanere in casa. Ancora in Asia, la liberazione «provvisoria» di 85.000 detenuti per reati comuni in Iran non serve a placare la rabbia che cova in molte galere; il 27 marzo una ottantina di detenuti evadono dal carcere di Saqqez, nel Kurdistan iraniano. Due giorni dopo, 29 marzo, un'altra rivolta esplode in Thailandia nel carcere di Buriram, nel nord-est del paese, dove alcuni detenuti riescono a fuggire. E non solo le carceri, anche i centri in cui vengono reclusi gli immigrati clandestini sono in agitazione, come dimostrano i disordini scoppiati al Cpr di Gradisca d'Isonzo, in Italia, il 29 marzo. Ma se le galere a cielo chiuso sovraffollate di dannati della terra sembrano oggi più che mai delle bombe ad orologeria che via via deflagrano, che dire delle prigioni a cielo aperto? Per quanto tempo ancora la paura della malattia avrà la meglio sulla paura della fame, paralizzando i muscoli ed offuscando le menti? In America Latina, il 23 marzo 70 persone assaltano una grande drogheria a Tecámac, in Messico; due giorni dopo in 30 saccheggiano un supermercato di Oaxaca. Lo stesso giorno, 25 marzo, dall'altra parte dell'oceano Atlantico, in Africa, la polizia deve disperdere a colpi di lacrimogeni la folla presente al mercato aperto di Kisumu, Kenya. Ai poliziotti che li esortano a chiudersi in casa, venditori e clienti rispondono: «sappiamo del rischio del coronavirus, ma noi siamo poveri; abbiamo bisogno di lavorare e di mangiare». Il giorno dopo, 26 marzo, la polizia italiana comincia a presidiare alcuni supermercati a Palermo, dopo che in uno di questi un gruppo di persone ha cercato di uscire con i carrelli pieni senza fermarsi alle casse. Né si può dire che gli arresti domiciliari imposti a centinaia di milioni di persone abbiano fermato del tutto la determinazione di chi è intenzionato a sabotare questo mondo mortifero. Nella notte fra il 18 e il 19 marzo a Vauclin, nell'isola di Martinica, viene incendiato un locale tecnico della compagnia telefonica Orange, tagliando le linee telefoniche ad un paio di migliaia di utenti. In Germania poi, dove le misure di contenimento scattano il 16 marzo, gli attacchi notturni continuano inarrestabili. Il 18 marzo, mentre a Berlino vanno in fumo alcuni veicoli dei concessionari Toyota e Mercedes, a Colonia vengono infrante le vetrate della società immobiliare Vonovia. All'alba del 19 marzo viene attaccata un'agenzia bancaria ad Amburgo, mentre a Berlino viene incendiata l'auto di una impresa di sicurezza. Nella notte fra il 19 e il 20 viene data alle fiamme un'auto di militari riservisti a Norimberga in segno di protesta contro la crescente militarizzazione, a Werder vengono incendiati tre yacht, e Berlino perde un'altra automobile di una ditta preposta alla sicurezza. Nella notte fra il 20 ed il 21 marzo, a Lipsia viene incendiata l'ennesima auto di un'impresa legata a tecnologie di sicurezza. Quella stessa notte sia in Germania che in Francia c'è chi tenta di staccare la spina dell'alienazione. Il tentativo fallisce a Padernon, dove i teutonici pompieri salvano per un soffio un’antenna telefonica in procinto di venire avvolta dalle fiamme. La fortuna non arride nemmeno agli autori del danneggiamento di alcuni cavi di fibre ottiche nei pressi di Bram, in Francia. Parte del borgo rimarrà sì senza internet e telefono per diversi giorni, ma i responsabili saranno arrestati grazie a una soffiata di alcuni testimoni. La notte successiva, quella del 22 marzo, nei pressi di Amburgo l'auto di un doganiere va in cenere. Chi ha compiuto questa azione diffonderà un testo dove si può leggere: «È proprio in questo periodo di pandemia che si accompagna alla stretta e alla restrizione della libertà di movimento, che è ancora più importante preservare la propria capacità di azione e mostrare a se stessi, come ad altri sovversivi, che la lotta contro le costrizioni di quest'epoca continua, anche se appare folle e difficile. Se ci arrendiamo all'auspicio dello Stato di isolarci, se ci accontentiamo di scrollare le spalle di fronte alla minaccia del coprifuoco, gli diamo l'opportunità di continuare le sue macchinazioni…». Si tratta di un pensiero che scalda le teste in tutto il pianeta, se è vero che in quella stessa notte fra il 22 e il 23 marzo l'aeroporto internazionale della Tontouta, a Païta, Nuova Caledonia è stato preso di mira (vetrate infrante e veicoli doganali vandalizzati) da chi evidentemente non è d'accordo con le parole del presidente del Senato tradizionale, secondo cui «le decisioni prese nell'emergenza dalle autorità pubbliche senza una spiegazione immediata non devono incitare alla violenza». Ma il fatto che più di altri potrebbe lasciare un segno profondo, brace che cova sotto le coltri del totalitarismo e da cui potrebbero scaturire scintille, è la sommossa (l’unica di cui sia arrivata una qualche notizia) scoppiata il 27 marzo non lontano da Wuhan, epicentro dell'odierna pandemia, al confine fra le province di Hubei e di Jiangxi. Migliaia di cinesi appena usciti da una quarantena durata due mesi hanno espresso tutto il loro apprezzamento e gratitudine per le misure restrittive imposte dal governo, attaccando la polizia che cercava di bloccare il passaggio sul ponte del fiume Yangtze. Da un mese a questa parte, il mondo così come lo abbiamo sempre conosciuto vacilla. Nulla è più come prima e, come vanno dicendo in tanti pur di opinioni diverse, nulla sarà più come prima. A mettere in discussione la sua quieta riproduzione non è venuta affatto l'insurrezione, bensì una catastrofe. Reale o percepita che sia, non fa differenza. Non c'è dubbio che i governi faranno di tutto per approfittare di questa situazione e spazzare via ogni libertà rimasta, che non sia quella di scegliere quale merce consumare. Non c'è dubbio nemmeno che abbiano tutte le carte tecniche in mano per chiudere la partita, ed imporre un ordine sociale senza più sbavature. Ciò detto, è risaputo che perfino i meccanismi più solidi e precisi possono andare a catafascio per un nonnulla. Il loro calcolo dei rischi preventivati, ed accettati, potrebbe rivelarsi errato. Drammaticamente errato e, una volta tanto, soprattutto per loro. Sta anche ad ognuno di noi fare in modo che ciò accada. 

Finimondo - 30/03/20

Il testo che segue è il contributo di una strega. Qui potete trovarlo in versione pdf.

I. La verità non sta nel mezzo, né di lato.

In momenti di grande incertezza si tende a ricercare più che mai la “verità”, nel tentativo di aggrapparvisi per dare un senso ad una situazione che non si riesce più a comprendere e a controllare. Sotto la lente di questa banale considerazione si può guardare a gran parte delle disposizioni e degli atteggiamenti messi in atto recentemente, ovunque sembra dilagare il coronavirus SARS-CoV-2 che può sviluppare la malattia del Covid-19.              

Medici e ricercatori di ogni risma tentano di ricostruire gli scenari del primo contagio, alla ricerca del paziente “zero”, dicendo tutto e poi il contrario di tutto; opinionisti da strapazzo descrivono nel dettaglio i sintomi della malattia (chiaramente di chi presenta gravi sintomi, tralasciando spesso di ricordare che esiste tutta una schiera di persone con sintomi simil-influenzali o asintomatiche che sono i vettori per eccellenza) ed invocano il vaccino o l’ennesima terapia panacea di tutti i mali.
Se da un lato è indubbio che vi siano grandi numeri di persone che hanno bisogno di essere ospedalizzate – il Covid-19 aggraverebbe situazioni cliniche già precarie o per l’età o per altre patologie, anche se non mancano eccezioni in questo quadro –, dall’altro è altrettanto indubbio che lo Stato stia reagendo a questa situazione inedita nell’unico modo che conosce e che gli è più congeniale, con l’autorità e il castigo. Insomma, alla situazione percepita come incerta, grazie anche alla martellante fanfara mediatica degli specialisti del “progresso”, segue prevedibilmente la certezza della repressione facile: divieti di spostamento – con l’eccezione di lavoro-salute-spesa, quanto di più ordinario e funzionale al capitale –, pattugliamenti massicci per le strade, tracciamento delle persone per mezzo delle celle telefoniche o del GPS, droni che sorvegliano i sentieri e le cime di montagna alla ricerca di refrattarie al morbo dell’autorità.

Se non fosse che è a prezzo della propria indipendenza (la “libertà” in fondo non l’abbiamo mai potuta assaporare in questo mondo) e del proprio benessere che si pagano queste disposizioni, verrebbe da ridere a crepapelle mentre si assiste allo spettacolo dell’insensatezza, alla ricerca di soluzioni facili che non esistono. Perché se secondo alcune questa epidemia poteva essere prevista, imprevedibili – non in assoluto, ma nella loro entità e nella loro imminenza – sono invece le conseguenze della devastazione ambientale, degli ecosistemi e della natura selvaggia, che quotidianamente viene portata avanti dagli stessi tecnici del disastro (da cui ora si cercano risposte) e da tutte coloro che hanno creduto fino ad ora, o credono ancora, di vivere nel migliore dei mondi possibili, tanto da volerlo preservare a qualsiasi costo.                                                           

Oltretutto, riconoscere che la riduzione della complessità del reale alla dicotomia problema-soluzione o causa-effetto è figlia di una certa mentalità può aiutarci a scorgere il carattere sempre più dogmatico e incontestabile della parola scientifica. Ora più che mai, sembra che la conoscenza scientifica sia sicura, vera in assoluto, non più perfettibile (ciò che è vero lo è fino a prova contraria); il monopolio del sapere è in mano agli specialisti in camice bianco e in questa situazione di “vera emergenza” è bene che le comuni mortali, prive di competenze, non mettano in dubbio le affermazioni di chi pensa di avere in tasca la verità del momento. Ma fra l’oscurantismo – inteso come l’atteggiamento di chi si oppone ad ogni cambiamento e, in senso più ampio, non volontà di conoscere, assenza di curiosità – e lo scientismo – l’atteggiamento di chi pretende di applicare il metodo scientifico ad ogni aspetto della realtà – esiste altro. È in questo spazio grigio che possono insorgere le passioni, la sensibilità e la sensazione, il corpo riscoperto e padrone di sé, i desideri più profondi e selvaggi di chi aspira a com-prendere l’esistente, senza aver la presunzione di riuscirci appieno. È in questo interstizio che potremmo far nascere la nostra critica radicale all’esistente.


II. Il tempo della roulette russa.

Perché questa pandemia? Da dove è arrivato questo virus? E ora, che fare? Lo sbigottimento ha la meglio, rafforzato dal clamore mediatico e favorito dalla spiacevole sensazione di sentirsi in trappola, perfino nel caso in cui si decida consapevolmente di non rispettare l’isolamento coatto.
Per alcune persone la sensazione di essere in trappola, o meglio di aver già raggiunto un punto di non-ritorno, è qualcosa di latente e viscerale che emerge con prepotenza ogni volta che magari si fa una passeggiata in montagna e si scorgono l’ennesimo traliccio che squarcia l’orizzonte, la cava che sventra la roccia e un altro ghiacciaio che si ritira, facendosi meno imponente dell’anno prima. Ogni volta che si vede scomparire sotto gli occhi una parte sempre più ampia di spiaggia, perforata e scavata dalle ruspe che devono far posto a portuali o turisti, ossia ad una fetta più grande di profitto. Ogni volta che sentiamo il nostro stesso sguardo abituarsi alla vista di una centrale nucleare o di un bosco raso al suolo e magari sostituito da una piana disseminata di ecomostri per il parco eolico (ah, la svolta green del capitalismo!). Ogni volta che si tocca con mano quanto il mondo in cui viviamo sia artificioso, del tutto innaturale, mentre osserviamo l’orso, il pitone, il delfino o la leonessa di turno al di là di una gabbia, di un recinto o di una teca di vetro, viventi non più selvaggi e rinchiusi nell’ennesimo parco faunistico o tracciati nella riserva naturale.

Ma se a questo sbigottimento seguisse una messa in discussione totale e profonda del mondo che conosciamo… Ecco, allora esisterebbero altri orizzonti e le domande che verrebbero poste sarebbero certamente ben diverse, ad esempio, dalla questione sollevata diversi giorni fa: “esiste una correlazione fra la diffusione del Covid-19 e l’inquinamento dell’aria?”. Diserteremmo, così, la battaglia dialettica fra coloro che si accorgono della devastazione solo o soprattutto dai gradi della temperatura media della superficie terrestre o, ancora, dalle tonnellate di emissioni di Co2 – che, in questa particolare circostanza, diminuiscono per il temporaneo blocco di molte attività produttive, nonché per la riduzione dei trasporti, dello smog e del traffico.
Ignoreremmo le considerazioni di chi risponde a questa domanda avendo in testa sempre e solo numeri e tendenze: “a febbraio le misure adottate dalla Cina hanno provocato una riduzione del 25 per cento delle emissioni di anidride carbonica rispetto allo stesso periodo del 2019 (…). Tra l’altro, secondo una stima questo ha evitato almeno cinquantamila morti per inquinamento atmosferico, cioè più delle vittime del Covid-19 nello stesso periodo”. Allo stesso modo, non ci lasceremmo ingannare da chi invece ha la presunzione di sembrare lungimirante, appellandosi alla cosiddetta transizione energetica, destinata al fallimento: “(…) l’andamento delle emissioni non dipende solo da quello dell’economia globale, ma anche dalla cosiddetta intensità di emissione, cioè la quantità di gas serra emessa per ogni unità di ricchezza prodotta. Normalmente l’intensità di emissione si riduce con il tempo per effetto del progresso tecnologico, dell’efficienza energetica e della diffusione di fonti di energia meno inquinanti. Ma durante i periodi di crisi questa riduzione può rallentare o interrompersi. I governi hanno meno risorse da investire nei progetti virtuosi e le misure di stimolo tendono a favorire la ripresa delle attività produttive tradizionali. Se come molti temono la Cina dovesse rilanciare la costruzione di centrali a carbone e altre infrastrutture inquinanti nel tentativo di far ripartire l’economia, a medio termine gli effetti negativi potrebbero cancellare qualunque miglioramento dovuto al calo delle emissioni.” (*)                                                                                                                

La lista potrebbe anche fermarsi qui, ma fra i tecnocrati che si sono affannati nell’indagine di questa misteriosa correlazione, c’è un’altra dichiarazione che merita di essere presa in considerazione perché, più di tutte le altre, è emblematica dell’insensatezza e della più radicata disperazione (nel senso etimologico di “assenza di speranza”) che alcune ormai ripongono nel genere umano. Perché se, da un lato, non è accertato che le cosiddette polveri sottili abbiano agito da vettori del coronavirus, favorendone la diffusione, e se dall’altro è noto che vivere in zone particolarmente inquinate incide sulla presenza di malattie respiratorie o cardiovascolari croniche, “la covarianza fra condizioni di scarsa circolazione atmosferica, formazione di aerosol secondario [che comprende particelle derivate da processi di conversione, ad es. solfati, nitrati e altri composti organici], accumulo di Pm [il particolato, ossia l’insieme delle sostanze sospese in aria] in prossimità del suolo e diffusione del virus non deve, tuttavia, essere scambiata per un rapporto di causa-effetto”. E quindi, venendo a mancare l’unica possibile chiave di interpretazione della realtà, segue la conclusione che sembra uno scherzo di pessimo gusto: “si ritiene che la proposta di misure restrittive di contenimento dell’inquinamento come mezzo per combattere il contagio sia, allo stato attuale delle conoscenze, ingiustificata, anche se è indubbio che la riduzione delle emissioni antropiche, se mantenuta per lungo periodo, abbia effetti benefici sulla qualità dell’aria e sul clima e quindi sulla salute generale” (**). In parole povere, perché limitare le emissioni se non è scientificamente provato che il particolato atmosferico ha favorito in maniera diretta la diffusione del virus, in un legame di causa-effetto? Perché limitarle in generale se sappiamo che la loro riduzione incide “solamente” sulla qualità dell’aria, sul clima e sulla salute del corpo? Sia chiaro che non intendiamo chiedere a nessuno di ridurre le emissioni perché non troviamo nessun interlocutore né fra gli specialisti da strapazzo, né fra i politicanti delle conferenze sul clima. Ci diamo invece ad una risata di cuore, quando non ci ricordiamo che buona parte della devastazione ambientale dipende da questi ricercatori-kamikaze; quando ci scordiamo di scorgere in questa mentalità un fondamento del dominio della tecnoscienza, insieme al vil denaro e ai rapporti di potere-oppressione. Lasciamo un attimo questi pensieri da parte, che se no la nostra risata rischia di farsi ghigno amaro. E d’altro canto sbagliamo pure noi, non dovremmo stupirci così davanti a tutto questo, perché come qualcuno scrisse qualche tempo fa: “la civilizzazione è monolitica ed il modo civilizzato di concepire tutto ciò che è osservabile è anch’esso monolitico” (***). E purtroppo torna: in questo mondo tecno-scientifico la complessità del reale non può che essere appiattita fino alla parodia di se stesso per legittimare la progressiva (auto)distruzione del pianeta e del vivente.

In tempi passati, molte streghe hanno sfidato l’esistente, tramandando antichi saperi sulla natura e sul corpo non demonizzato, rifiutando la legge del padre, del prete, dell’erudito e del re, e crediamo che in salsa contemporanea disconoscerebbero la legge scellerata di questi tecno-stregoni. Con buona probabilità non ammetterebbero nemmeno la validità delle domande riportate all’inizio di questo testo, dato che non possono esserci risposte assolute, ma solo ragioni concomitanti, dubbi e interrogativi. Vogliamo seguire le orme di quelle streghe nelle nostre ultime riflessioni.
Consideriamo i primissimi focolai di diffusione del Covid-19 – la provincia industriale dello Hubei in Cina e la Pianura Padana in Italia (fra bassa Lombardia ed Emilia: Lodi, Codogno, Piacenza, Bergamo e Brescia): se pure non confermano la misteriosa correlazione, alludono al fatto che zone simili, così densamente popolate, industrializzate ed inquinate, sono terreno fertile per agenti patogeni, sia perché ne favoriscono in qualche modo la proliferazione, sia perché la salute fisica di chi ci vive è già indebolita. Soprattutto l’una o l’altra o entrambe le ragioni insieme, in quale misura si combinano fra di loro o con ulteriori ragioni non è dato sapere. Asma, diabete, obesità, tumori, malattie (neuro)degenerative, malattie respiratorie e cardiocircolatorie croniche – oltre all’età avanzata – sembrano essere ulteriori fattori di rischio per chi dovesse soffrire di Covid-19, dato che questo potrebbe sviluppare gravi sintomi (fra i più noti, le crisi respiratorie acute). Alcune di queste patologie, peraltro, sono altrimenti dette “malattie della civilizzazione”, la cui comparsa sembra essere legata al consumo di cibi raffinati, fra cui rientrano di certo i prodotti industriali delle coltivazioni e degli allevamenti intensivi.                                                    

E ancora: questa epidemia si inserisce nella lunga serie di quelle che si sono susseguite nei secoli, che si sono fatte più frequenti in presenza di agglomerati urbani o di viaggi intercontinentali e che, in ogni caso, hanno rimesso in questione il contatto fra l’animale umano e il non umano. Solo per citare le epidemie di malattie zoonotiche (cioè che si trasmettono dall’animale non umano a quello umano, attuando il “salto di specie”) degli ultimi 50 anni: la Sars e la Mers (entrambe sindromi respiratorie, nel secondo caso è detta del Medio Oriente), l’Hiv/Aids, l’influenza suina e l’aviaria, la febbre Dengue, l’ebola ed ora il Covid-19. Le ultime due sembrano, tra l’altro, avere in comune il pipistrello come animale non umano da cui poi si sarebbe originato il primo passaggio del virus all’umano di turno, che si guadagna il titolo di “paziente zero”. Nel caso di questo coronavirus, a parte le tanto millantate zuppe di pipistrello o di serpente (il più becero esotismo non è ancora morto in Occidente!), sembra che il contatto possa aver avuto luogo nei mercati neri in cui vengono commerciati animali selvatici o ai margini delle periferie urbane, in cui i pipistrelli si muovono in cerca di cibo. Quale che sia il caso in questione, ci sembra importante riconoscere lo sconfinamento di uno dei protagonisti del contagio nella sfera vitale dell’altro: che piacerebbe trarrebbe, infatti, il pipistrello dallo stare in mezzo alle persone, se non fosse che il suo habitat di sempre è diventato adesso parte della città? Di certo gran poco, a maggior ragione se pensiamo che rischia di essere inserito a forza nel contrabbando di animali selvatici come merce di scambio, accanto ad altri di ogni specie. Si tratta, d’altronde, di una florida attività mondiale a cui spesso partecipano anche sparute comunità indigene che, vedendosi spossessate di buona parte dei propri territori (a causa della deforestazione o delle multinazionali agroalimentari), ripiegano sul bracconaggio e talvolta sul contrabbando di legname per poter sopravvivere. Così facendo la mercificazione è davvero totale: perfino i rapporti di coesistenza simbiotica e secolare fra queste comunità, il vivente e ciò che restava del selvaggio attorno a loro devono scomparire per far spazio all’autodistruzione dettata dal profitto. Nulla può resistere all’inarrestabile avanzata del progresso, nessun luogo può sfuggire alla contaminazione umana di chi crede nella validità della “civilizzazione”.                                                    

Infine, a cascata: l’urbanizzazione e le malsane concentrazioni demografiche, gli allevamenti intensivi dell’orrore, le immense monocolture legate a doppio filo coi cicli di carestie e l’impoverimento della terra, l’incessante flusso di merci e di persone in movimento in ogni parte del globo, la devastazione ambientale di ogni ecosistema e la scomparsa del selvaggio, l’ennesima nocività giustificata dal sistema energivoro, il crollo della biodiversità, gli OGM a buon mercato e tutti i processi di manipolazione genetica del vivente promossi dalle biotecnologie… Quando fermare l’enumerazione dei misfatti della devastazione? Non c’è modo, perché ci sono troppi equilibri che sono stati spezzati; in alcuni casi abbiamo già constatato le conseguenze nefaste di questa rottura, in altri casi avremo presto modo di scoprirlo. La partita sembra già persa in partenza (e forse lo è per il genere umano, ma non per gli altri viventi) ma varrebbe comunque la pena fare almeno un ultimo tentativo. Last shot.
Al posto di fare eco al vicolo cieco delle domande iniziali (“perché questa pandemia? da dove è arrivato questo virus?”) quelle streghe si darebbero alla possibilità e, per come ce le immaginiamo, rischierebbero il tutto per tutto pur di aprire altri orizzonti. Azzardando così domande diverse: “Dove troviamo la devastazione? Chi la porta avanti e in che modo? E ora, che fare?” – ma senza chiederci quanto tempo fa è cominciata questa devastazione totale, perché il rischio è di perderci nei meandri della storia e delle interpretazioni, ma soprattutto di farci perdere quella sensazione di pancia che fa sentire sotto scacco e che alimenta la nostra rabbia. Ci basta sapere che la devastazione esiste ed è continua. Non pensiamo che sia una catastrofe perché non è un evento inaspettato, bensì è la prevedibile (anche se non in assoluto) conseguenza di una guerra al vivente che viene perpetrata quotidianamente da persone, aziende, ricerche ed istituzioni – tentacoli di questo mortifero dominio tecno-scientifico.

Addì, 28 marzo 2020

una strega nemica di ogni corona


P.S. L’espressione, presente nel titolo, “morbo che infuria” non intende avere nessuna attinenza coi versi di qualche nazionalista italiota. E il morbo di cui scriviamo non è di certo il Covid-19.

(*) https://www.internazionale.it/opinione/gabriele-crescente/2020/03/19/coronavirus-clima  (**) https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2020/03/22/coronavirus-studio-legame-con-lo-smognon-e-provato_de96c12d-6813-4702-9cdc-a7cbdcc73e69.html
(***) Cit. dal testo tradotto “Nature as spectacle. The image of wilderness vs. wildness” (1991) e contenuto nella raccolta “Saggi e polemiche” (Hoka Hey! Ed.) di Feral Faun / Wolfi Landstreicher