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Nel momento di scrivere queste righe sta per essere lanciata una operazione poliziesca su larga scala a Calais. Una operazione che mira a deportare la totalità delle persone che abitano la zona chiamata Giungla, dove circa 7000 individui godono ancora di una certa autonomia, di rapporti di mutuo appoggio per far fronte alla precarietà e per organizzarsi nel tentativo di passare la frontiera. Dovrebbero essere suddivisi ad ogni angolo della Francia, secondo le considerazioni giuridiche ed amministrative e in maniera di levar loro ogni speranza di andare in fondo al loro cammino, alcuni nei «centri di accoglienza», altri nei centri di detenzione per immigrati. Un po’ come si differenziano i rifiuti. Calais, questo punto di passaggio quasi obbligato per migliaia di persone che — sotto costrizione, per necessità o per scelta — hanno lasciato i loro luoghi di vita, e si aggrappano malgrado la tormenta al desiderio di raggiungere l’Inghilterra.

Calais, un territorio dove poco più di un anno fa Eurotunnel ha eretto una trentina di chilometri di barriere metalliche, su diverse file, talvolta sormontate dal filo spinato, con profusione di telecamere, sistemi di sorveglianza ad infrarossi, chiusure elettrificate, vigili e unità cinofile. Il tutto per aiutare i poliziotti incaricati di impedire l’accesso all’Eurotunnel e al porto, i quali in qualche caso nel corso di scontri si sono fatti abbondantemente malmenare, allorquando in coloro a cui sono incaricati di rendere la vita impossibile si mescolavano rabbia, sostegno reciproco e volontà di superare o di abbattere gli ostacoli. Calais, dove un anno fa Eurotunnel ha disboscato massicciamente i terreni che costeggiano le linee ferroviarie, innanzitutto per fare piazza pulita per la videosorveglianza e togliere ogni possibilità di nascondersi, poi per inondare i terreni ed annichilire ogni tentativo di passaggio a fronte del rischio di annegare. Calais, dove lo scorso gennaio lo Stato ha fatto costruire un campo di container affinché sotto la minaccia di una espulsione imminente si ammassasse un numero scelto di persone, sotto la stretta sorveglianza di una associazione umanitaria (La Vie Active) e di un sistema di prelievo d’impronte digitali all’ingresso (costruito da una ditta della regione). Calais, dove come nelle strade di Parigi ed altrove, si contano a migliaia gli arresti, le reclusioni nei centri di detenzione per immigrati e le espulsioni forzate.

Calais, un territorio dove l’infamia viene messa a nudo.

Calais, dove l’arbitrio del potere sulla vita di tutti, e più violentemente su quella degli indesiderabili, non può essere negato.
Calais, dove si staglia alla luce del giorno la priorità data ai trasporti di merci e alla circolazione dei treni piuttosto che all’esistenza di esseri di carne e di sangue.
Calais, dove industria, affari e repressione banchettano al matrimonio dell’orrore e dell’indifferenza.
Calais, dove si cristallizza ciò che spadroneggia ovunque altrove.

A Calais quindi, continuano la costruzione ed il consolidamento delle frontiere visibili: a metà ottobre sono state poste le prime lastre di cemento, alte quattro metri, per costruire un muro fra la Giungla e il porto che costituisce una delle ultime possibilità di passaggio, dato che ogni giorno vi transitano diverse migliaia di camion. Un nuovo dispositivo che fa parte di un progetto più vasto di controllo del bestiame umano e di repressione di chi rifiuta di piegarsi, un progetto mostruosamente razionale, pensato, elaborato, discusso, adattato, negoziato, deciso con sangue freddo e lucidità da rappresentanti istituzionali, da politici di alto rango, da consiglieri, da alti funzionari di polizia e della Prefettura, da legislatori e giudici, da esperti, da imprenditori, da subappaltatori. Un progetto che genera grosse somme di denaro, tali da interessare una sfilza di imprese come Eurovia-Vinci incaricata della costruzione del muro, Sogea, altra filiale di Vinci incaricata della distruzione della zona sud della Giungla in febbraio e della costruzione del campo di container, l’ong Acted sovvenzionata dallo Stato e che collabora con la polizia alle frontiere per l’organizzazione dell’espulsione, le agenzie di noleggio delle macchine di costruzione Manitou, Salti e Kiloutou. Un progetto che non si limita a Calais e dintorni, e nel quale la SNCF [ferrovie francesi] ha la sua parte di responsabilità specialmente rafforzando i controlli che colpiscono i senza documenti nelle stazioni di Calais Fréthun, Paris Gare du Nord e Lille, collaboratrice di deportazioni verso l’Italia dalla valle della Roya nel corso delle quotidiane operazioni di controllo eseguite da militari e sbirri sui treni e sulle banchine ferroviarie. Anche Thalès ha organizzato un complesso sistema di sorveglianza del porto di Calais, e prodotto i due droni militari che sorvegliano il sito dell’Eurotunnel, e si vanta d’essere uno dei leader mondiali sul mercato della sorveglianza delle frontiere.

Per chi è venuto da lontano senza autorizzazione e senza pied-à-terre, lo Stato vorrebbe che esistessero solo due soluzioni: la reclusione in centri di detenzione (e la sua nuova declinazione sperimentata questa estate, la reclusione all’esterno, ovvero l’obbligo di dimora con firma quotidiana al commissariato) o un controllo serrato, attraverso procedure di richiesta d’asilo, «di scambio» (ovvero di rinvio forzato) in un altro paese europeo, di spostamento in alcuni centri. Ma se lo Stato riesce a rinchiudere dei corpi, fallisce nell’annichilire i loro cuori e le menti, come dimostra l’incendio di gran parte del centro di detenzione per immigrati di Vincennes all’inizio di luglio ad opera dei detenuti stessi, o i molteplici e incessanti tentativi di evasione. Quanto alle misure di controllo, malgrado i viziosi tentativi di associazioni ed organizzazioni umanitarie per farle accettare a quelli che sanno bene per quali ragioni le rifiutano, tutto lascia pensare che lo Stato, senza l’adesione di chi vorrebbe vedere docile ed obbediente, dovrà utilizzare la forza e la violenza per imporgliele. Svelando ancora una volta e senza pudore il solo volto che gli è proprio: quello dell’autorità.

Perché se esiste qualcosa di profondamente radicato negli esseri umani, oltre il tempo e lo spazio, è proprio la capacità di rifiutare il destino che è stato assegnato, a loro e ai propri simili, di rifiutare di piegarsi alle costrizioni esterne. È la volontà inalterabile di sfidare le potenze che li condannano a un destino totalmente tracciato. È da qui che la rivolta trae la propria forza. Dandosi dei mezzi, è sempre possibile rimandare un po’ delle loro responsabilità in faccia ai nemici della libertà.

Ciò che disgusta il cuore, che la mano attacchi

[Paris sous tension, n. 7, ottobre 2016]

Laterizio

Sono un mattone delle mura aureliane, ma mi piace pensare che in fondo sono una pietra come le altre. Ero argilla, terra cruda, prima di passare nel forno. Dopo la mia trasformazione una mano abile mi ha innalzato qui sopra quella che oggi chiamate porta S. Giovanni. Una posizione privilegiata per osservare non c’è dubbio. E io da 17 secoli osservo l’umanità passare attraverso le soglie di Roma. Ho visto l’artigiano che mi ha forgiato, ma non riesco a scordare gli occhi del suo schiavo, un giovane ragazzo che avrebbe preferito di gran lunga fuggire, o anche trovare la morte piuttosto che declinare la sua vita al padrone.

Ho visto il carpentiere portarmi su in alto, ne ho visti molti precipitare. Le mura si sa le costruiscono coloro che ne beneficeranno di meno. Anche in quel periodo, il III secolo, si parlava di crisi. Una crisi del tradizionale sistema economico, un periodo di instabilità con quelli che voi chiamate “barbari” che spingevano ai confini dell’Impero, lo scontento degli humiliores che sfociava spesso in sedizione. Quante volte ho visto le legioni imperiali affogare nel sangue i tentativi della plebe di cambiare la propria vita.

All’ombra delle mura di cui faccio parte ho sentito confabulare, congiurare, cospirare, arringare il popolo: “Che vengano i germani, che distruggano quest’impero maledetto”.

Ho visto i Visigoti di Alarico e i Vandali di Genserico con le loro orde travolgere le mura e saccheggiare la città eterna. E più in la i lanzichenecchi di Carlo V che vennero a punire il nuovo imperatore che si faceva chiamare Papa: come ogni sovrano regnava nella corruzione e nel terrore. Ma a pagare le scelte dei signori è il popolo stesso che ha eretto e solidificato le mura delle maestose città.

Ho visto la Repubblica Romana ed i suoi ideali di libertà decapitati nuovamente dall’oppressore. Ho visto delle orrende palle di fuoco cadere dall’alto. Ho visto imponenti esseri d’acciaio solcare in cielo in grandi guerre mondiali. Ho visto delle milizie con la camicia nera scimmiottare la mitologia dell’antica Roma per difendere le proprietà e l’ordine dalla stessa popolazione che dicevano di rappresentare.

Avrei voluto gridare che la Storia, vista come il solco tracciato dalla ruota del carro dei vincitori, è una menzogna, una menzogna insanguinata, un incubo da cui risvegliarsi. Avrei voluto gridare a tutti quelli che passano di lasciar perdere i grandi condottieri, gli Imperatori i Re, i Papi, gli statisti e i Presidenti e pensare, immaginare, sognare lo schiavo in rivolta, l’eretico, la prostituta ribelle che arringa la folla, il bambino che raccoglie una pietra e la scaglia sul soldato. Avrei voluto gridare. L’ho fatto. Ma lo sapete, la mia voce è muta.

Ma vedo ancora bene e sento i vostri discorsi, sento la rabbia la frustrazione ma anche la rassegnazione e la morte di ogni speranza. Vi sento dire che niente cambierà che è tutto inutile. La più grande menzogna che la democrazia – la nuova forma subdola di dominio- vi ha inculcato è che tutto è destinato a rimanere così per sempre. Perché d’altronde questo, è il migliore dei mondi possibili: quello dell’Economia.

Pensate che i grandi avvenimenti storici sono già tutti avvenuti e di non essere parte di nessun movimento tellurico della Storia. Pensate di essere gettati sul binario da seguire che è quello del lavoro, della noia, della sottomissione e del divertimento come palliativo.

Non è vero. Avete la scelta.

Ho visto, dalla mia posizione privilegiata, una fiumana di gente correre in direzione di piazza San Giovanni, il 15 ottobre del 2011. Dietro di essa una decina di mostri meccanici rincorrerla e girare all’impazzata, seguita a piedi dai gendarmi del vostro tempo, con le loro corazze forgiate apposta per fronteggiare le sedizioni urbane. Avevano la stessa faccia dei legionari e dei soldati del Papa, massacratori di ribelli nei secoli orsono. Ho visto giovani infuriati attaccarli con impeto, spazzando via con un calcio la paura, proprio come rimandavano indietro degli strani cilindri che sputavano un fumo urticante. Ho visto la folla silenziosa diventare classe pericolosa, accerchiare e uccidere col fuoco il mostro meccanico, e far fuggire a gambe levate le guardie vilmente nascoste al suo interno. Ho visto vergare sopra un altro muro “Oggi abbiamo vissuto”. Ho sentito urla, incitazioni, risate, bestemmie, maledizioni, grida di gioia e di paura. Questo grido lo brama ardentemente il brivido sottile che corre lungo le innumerevoli schiene. Per l’esistenza più profonda, inconsapevole della massa, le feste di gioia e i falò sono solo lo spettacolo nel quale essa si prepara all’istante dell’emancipazione, a quell’ora in cui il panico e la festa, riconoscendosi fratelli dopo una lunga separazione, si abbracciano nell’insurrezione rivoluzionaria.

Guardavo tutto dall’alto ma volevo far parte anche io della battaglia, cadere sulle teste dei nemici, raggiungere finalmente il suolo per essere preso da una mano lesta, non volevo e non voglio essere muro, voglio essere breccia, voglio volare.

La lenta stratificazione delle epoche storiche alla quale assisto impassibile mi ha insegnato che gli oppressi non hanno nulla da guadagnare da mura di cinta, galere, e confini.

Da qui vedo i grandi palazzi del commercio e della finanza, i luoghi di culto della rassegnazione e quelli del denaro: sono già rovine prima di decadere. All’ombra di ogni tempio nascono degli eretici così come all’ombra delle mura, tra i passanti, nasce e si diffonde il pensiero e la pratica sediziosa della solidarietà e della condivisione.

Le pietre passano di mano in mano.

Un'Ora

Da un' idea di Giovanni Uggeri
Microconferenze, letture, autobiografie,
omaggi a, racconti, esperienze, ipotesi,
visioni
ORALITÀ, COMUNICAZIONE , CONDIVISIONE
Giovedì 20 Ottobre 2016 ore 18:30
Libreria Ponchielli
Attenzione!
Questa volta siamo a Palazzo Cattaneo, via Oscasali 3
Sala Conferenze “Ivan Illich”
Visegno” a cura di Claudia Ferraroni
Yabu no Naka” lettura a sette voci

Visegno
presentazione a cura di Claudia Ferraroni
Visegno è un libro che raccoglie una grande esperienza laboratoriale condotta da Michele Di Maria.
Visegno è stato, ancora prima che un libro, un laboratorio composto semplicemente di un pastello rosso, uno giallo, uno blu.
Alla bellezza estetica dei lavori presentati si accompagna la consapevolezza etica che esprimersi, certi dell'ascolto, sia uno dei grandi strumenti della riconquista del sé.
Il volume contiene la documentazione delle diverse fasi del percorso e la riproduzione delle opere conclusive di ogni partecipante.
In questo caso l'opera è la comunicazione messa in atto nel laboratorio oppure le singole tavole dei partecipanti?
I lavori saranno proiettati su schermo.
Yabu no Naka o Nel bosco
Ritenuto il capolavoro del periodo intermedio dell’attività di Akutagawa Ryūnosuke (Tokyo 1892-1927), Nel bosco è un racconto che ha inizio in una giornata di pioggia, ad un crocevia.
E' la storia di sette personaggi implicati in un delitto, ognuno con la proprio testimonianza, ovviamente diversa, dell'accaduto.
L’autore non fornisce nessuna soluzione chiarificatrice, ma lascia al lettore ogni possibilità di scelta. Ogni confessione è ugualmente credibile e contemporaneamente non credibile, prova evidente delle difficoltà che si incontrano durante la ricerca e la comprensione della verità.
Da quest’opera il regista Kurosawa trasse la trama del film Rashomon che vinse nel 1951 il premio cinematografico Leone d’Oro a Venezia.
Il racconto sarà letto a sette voci.