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Parafrasando una celebre quanto provocatoria riflessione formulata da un intellettuale tedesco all'indomani della seconda guerra mondiale, vien voglia di chiedersi se scrivere un testo di critica sociale dopo il Covid 19 non sia un atto di barbarie che avvelena la consapevolezza stessa del perché è divenuto impossibile oggi scrivere testi di critica sociale. Con ciò non si intendono equiparare i campi di stermino nazisti agli odierni reparti ospedalieri democratici, semmai interrogarsi se l'inimmaginabile enormità di quanto sta avvenendo non renda patetica e superflua ogni ulteriore analisi della realtà. Se in passato lo Sterminio burocratico di milioni di ebrei ha ucciso la poesia, oggi la Servitù Volontaria sanitaria di miliardi di esseri umani non ha forse ucciso la critica, rendendo anch'essa in-scrivibile, il-leggibile, im-praticabile? Se lo Sterminio ha messo fine alla ricerca della bellezza, la Servitù Volontaria non sta mettendo fine alla ricerca di significato? Con questa premessa, che senso ha ostinarsi a diffondere un qualsivoglia pensiero critico in una società che — trasversalmente, dall'alto in basso — cerca in tutti i modi di essere spensierata, ovvero di non dover pensare a nulla, non essendo disponibile ad ascoltare e ricevere alcuna critica? Chi potrebbe mai interessarsi a questo pensiero altro, chi trascorre le proprie giornate a «chattare» nei social network? Chi liquida come negazionismo o ideologia qualsiasi messa in discussione delle (altrui) convinzioni introiettate come proprie? Chi si preoccupa ossessivamente di indossare correttamente la mascherina, di garantire il distanziamento sociale, di venire al più presto vaccinato? O chi, animato da pruriginosi intenti radicali, organizza qualche «chiacchierata» sul conto di qualche «narrazione»? Ci sembra che quanto sta accadendo da quasi un anno in tutto il mondo — le scomposte reazioni alla diffusione di un virus poco più che banale, fra stati di emergenza che negano ogni libertà e psicosi di massa che scatenano qualsiasi brutalità — abbia fatto piazza pulita di ogni benché minima illusione necessaria sulle residue capacità della critica di contrastare lo sgretolamento del senso. Dopo una così formidabile, simultanea e planetaria dimostrazione di annichilimento delle intelligenze, chi si sente di scommettere ancora sulla possibilità di un risveglio delle coscienze? Quanta spavalda schizofrenia è necessaria per sorvolare sull'ovvietà che, per risvegliarsi, la coscienza dovrebbe comunque esistere, palesarsi, essere viva, seppur addormentata e sepolta sotto uno strato di automatismi? Si tratta di un’ipotesi impossibile da prendere in considerazione oggi, dopo aver visto milioni (se non miliardi) di persone invocare maggior coercizione, giustificare ogni controllo, partecipare alla delazione, senza il minimo scrupolo, con rabbia e determinazione.   Facciamo un paio di piccoli esempi. I mass media sono riusciti, senza sollevare ondate di ilarità, a dare notizia della produzione di un vaccino contro il coronavirus la cui efficacia, dichiarata al 94%, arriverebbe al 100% nei casi più gravi. Ora, come dovrebbe essere universalmente risaputo, un vaccino va somministrato a persone sane per evitare che si ammalino e quindi non ha alcun senso darlo ai pazienti che versano in gravi condizioni. Se invece non si tratta di un vaccino, bensì di un intruglio terapeutico, allora sì che andrebbe somministrato a chi è già ammalato — ma in questo caso non avrebbe senso spacciarlo per vaccino, né soprattutto farlo assumere a chi gode di buona salute. Davanti alla minaccia pandemica pare quindi che la scienza medica abbia superato Gesù Cristo nell'arte di compiere miracoli: non solo ha creato un vaccino contro un virus misterioso in soli 7 mesi, ma per di più è efficace sia come vaccino preventivo che come farmaco curativo!  Quanto ai suoi effetti collaterali, è di non molti giorni fa la notizia che in Norvegia si sono registrati decine di morti fra coloro a cui era stato somministrato. Preoccupate che ciò avrebbe fomentato i dubbi e i timori di gran parte della popolazione (influenzata dall'ignorante propaganda dei cattivi no-vax, anziché dall'informazione oggettiva dei buoni scienziati), le autorità sanitarie norvegesi hanno fornito questa spiegazione: «per pazienti con più grave fragilità, anche gli effetti collaterali relativamente lievi dei vaccini possono avere gravi conseguenze». E ciò può essere senz'altro vero, tanto quanto per pazienti con più grave fragilità, anche gli effetti relativamente lievi di un virus possono avere gravi conseguenze. Senza accorgersene, le autorità sanitarie norvegesi hanno ripreso la stessa argomentazione sostenuta da quasi un anno a questa parte da chi non prova il minimo senso di panico ad uscire di casa, respirare, sfiorare e toccare gli altri. Il vaso trabocca perché è colmo fino all'orlo, è assurdo demonizzare l’ultima goccia. Solo un'umanità che non sa né ricorda più se sia in guerra con l'Eurasia o con l'Oceania, può terrorizzarsi se il colpo di grazia ad ultraottantenni ammalati lo dà un virus e tranquillizzarsi se a darlo è un vaccino. Eppure, è proprio il cosiddetto vaccino — e non il virus — a venire intenzionalmente somministrato. Eccolo qui, il nostro tormento. Cosa resta da dire a chi è palesemente, caparbiamente, furiosamente convinto che due più due fa cinque? Oltre settant'anni fa Orwell scriveva che per il potere «da parte dei proletari, in particolare, non vi è nulla da temere: abbandonati a se stessi, continueranno — generazione dopo generazione, secolo dopo secolo — a lavorare, generare e morire, privi non solo di qualsiasi impulso alla ribellione, ma anche della capacità di capire che il mondo potrebbe anche essere diverso da quello che è». E ciò non riguarda solo i bravi cittadini, quelli per bene, quelli più usi ad acconsentir tacendo. Come ammoniva Primo Levi, «un regime disumano diffonde ed estende la sua disumanità in tutte le direzioni, anche e specialmente in basso... corrompe anche le sue vittime ed i suoi oppositori». Una società dal funzionamento totalitario, come quella in cui viviamo, ottiene il medesimo effetto. Come stupirsi e indignarsi delle telefonate delatorie di onesti cittadini alla vista di qualcuno che si bacia per strada, o dei Trattamenti Sanitari Obbligatori inflitti a chi invita la gente ad uscire da casa, o della radiazione di medici dubbiosi sulla vaccinazione, quando ci sono comunisti antistalinisti che ammirano le drastiche misure anti-pandemia prese da governi orientali, anarchici anti-tecnologici che invitano a battersi per la vaccinazione gratuita, anarco-comunisti che si vantano di disinfettare il megafono da passare di mano in mano, critici radicali entusiasti della capacità auto-organizzativa di fare da tappabuchi alle mancanze statali, sindacalisti rivoluzionari che garantiscono il distanziamento sociale, intellettuali moltitudinari che rivendicano il comunismo dei vaccini, militanti insurrezionalisti che condividono le preoccupazioni sanitarie istituzionali pur di avere qualcosa da narrare agli operai in sciopero...  Sommersi dalla nausea, ci ritroviamo di nuovo tentati a parafrasare Adorno e sostenere che l'emergenza pandemica ha dimostrato inconfutabilmente il fallimento della cultura e che tutta la cultura dopo il Covid 19, compresa la critica urgente ad essa, è spazzatura. Poiché essa si è restaurata dopo quel che è successo nel suo paesaggio senza resistenza, è diventata completamente ideologia. Chi parla per la conservazione della cultura radicalmente colpevole e miserevole diventa collaborazionista, mentre chi si nega alla cultura favorisce immediatamente la barbarie, quale si è rivelata essere la cultura. Neppure il silenzio fa uscire dal circolo vizioso: esso razionalizza soltanto la propria incapacità soggettiva con lo stato di verità oggettiva e così la degrada ancora una volta a menzogna.  Intrappolati all'interno di questo circolo vizioso, non si intravedono vie di fuga. Il processo di disincanto della vita non ha raggiunto il suo apice nelle atrocità più crudeli commesse nel secolo scorso. La porta resta sempre aperta all'oscurantismo, come testimoniano gli elicotteri sollevati per braccare chi si prende la tintarella in spiaggia, i linciaggi di chi esce di casa per fare ginnastica o portare a spasso il cane, per non parlare del silenzio sulle morti avvenute durante le proteste scoppiate in carcere, proteste — giova ricordarlo — nate per le restrizioni subite e poi recuperate e trasformate in richieste di maggiore tutela sanitaria. Davanti a questa realtà, terrificante e sotto gli occhi di tutti, quali parole restano? Dovremmo commentare l’assalto fallito a Capitol Hill per meglio tacere sull’assalto vittorioso ai nostri desideri?  Proprio quando si appresta a compiere il suo decimo ed ultimo anno di vita, Finimondo si accorge di non aver ormai più nulla da dire. O meglio, di non voler più dire al nulla. Ed il problema, contrariamente a quanto pensano alcuni, non è lo strumento tecnico. Le parole non diventano in sé stolte non appena vengono proiettate su uno schermo, né in sé intelligenti non appena vengono vergate su carta. È però vero che la lettura su carta stampata richiede uno sforzo che allontana automaticamente chi è abituato a lanciare facili cinguettii, operando così una selezione necessaria. È quindi alla pubblicazione di libri che intendiamo in futuro dedicarci assai più che a siti in grado solo di fare schiuma alla superficie degli avvenimenti. Finimondo è quindi destinato a spegnersi progressivamente, scomparendo dalla rete nel prossimo periodo.   

Probabilmente Adorno non avrebbe mai scritto nel 1949 quelle parole sulla poesia se avesse conosciuto Bożena Janina Zdunek, una giovane polacca combattente nella resistenza clandestina, catturata dalla Gestapo e liberata da Auschwitz nel 1945. Quando uscì dal campo di sterminio, aveva in tasca un quadernetto di 32 pagine che le detenute si passavano di mano in mano e che lei avrebbe conservato per tutta la vita. Bożena Janina Zdunek è morta nel 2015 e suo figlio ha di recente donato quel quaderno al Museo di Auschwitz. Al suo interno ci sono i pensieri e le poesie che le prigioniere ebree scrivevano di nascosto, in quotidiana attesa della morte. Non dopo o prima di Auschwitz, ma durante e dentro Auschwitz. Atto di barbarie? No, atto di resistenza davanti all'indicibile — la vita, nonostante tutto! Ma quel quadernetto così prezioso le prigioniere di Auschwitz erano costrette a nasconderlo, sottraendolo alle perquisizioni, ai controlli, agli sguardi degli aguzzini. Era questa la condizione preliminare per continuare a scrivere poesie, perfino dentro un campo di sterminio. Che si tratti di un'esigenza valida anche oggi per la critica sociale? Che il pensiero critico, quale che sia, non possa che essere confidenziale? Che ruminare rancorosamente sulla propria marginalità, tipico assillo di politicanti in erba, sia solo l'effetto di un'inconfessabile vanità? Viviamo in territorio nemico, davvero non ce ne siamo accorti? Smettiamola con le allucinazioni consolatorie (il popolo, le masse, il proletariato, il movimento…) e traiamo le dovute conseguenze. Ad esempio, come diceva il Divino Marchese, che ci rivolgiamo solo a coloro che sono capaci di capirci. O, sull’altro versante, che Caracremada sapeva che fare assai meglio di Lenin o Malatesta.  

Finimondo, 1 febbraio 2021

Editoriale

La miseria della sopravvivenza porta il pensiero a rifugiarsi nella comune banalità del razionalismo. La tecnica invade la vita trasformandola in una sequenza di operazioni, in una corrispondenza lineare di causa ed effetto, in una macchinica interpretazione del mondo, estranea al sé.

Eppure qualcosa sfugge. La megamacchina è solo un’interpretazione, un concetto, un progetto irrealizzabile. La quantità non potrà mai sovrapporsi alla qualità, esse non coincidono e non coincideranno mai. Chi scrive preserva ancora la convinzione, forse per qualcunx un’ingenua illusione, che la dominazione mai potrà essere totale, vi è una dimensione incontrollabile che la rifugge. In essa vi rientra l’unicità propria del singolo.

Il percorso di ogni individuo è costellato di sguardi, pensieri, conoscenze, abilità, riflessioni, istinti improvvisi, impeti distruttivi, deliri incomprensibili, atti creativi… cercare di racchiudere la complessità di questo mondo in una rivista è di per sé una limitazione e una mancanza di rispetto, ma anche un modo per valorizzarla, disperderla affinché qualcun’altra ne possa cogliere i frammenti e dare vita ad un’unicità nuova. Per questo nasce questa rivista, per dare sfogo a quella dimensione ancora selvaggia, che alcune individualità nutrono con passione ed affetto.

Una rivista senza istruzioni per l’uso, per assaporare, con lentezza, fuori dal tempo frenetico che circonda le nostre esistenze, scritti e idee che non vivono per forza nel presente, a volte neanche nel passato e men che meno nel futuro.

È difficile spiegare e riassumere qualcosa che non ha in sé, e non vuole avere, una definizione, una determinatezza. Ci si vuol mettere in discussione, a partire dal linguaggio, sperimentando. Poesia, prosa, canti, immagini, racconti, dissertazioni che odorano di filosofia…tutto ciò che attraversa i nostri corpi e si può tramutare in parola scritta vuole trovare posto in questa pubblicazione.

Non troverete quindi Certezze, che sono delle tristi catene, ma idee espresse con determinazione, la volontà di restare fuori dall’immediatezza comunicativa, il rifiuto della dimensione tecnologica. Le Certezze sono nemiche. Sono dogmi, come la Religione, compresa quella della Scienza, dello Stato e dell’Umanità. Vogliamo profanare la sacralità. Scendendo, o salendo (chi lo dice che la strada sarà in discesa?) nell’abisso del dubbio.

Non ci sono ricette (forse qualcuna sì eheheh). Non si ha la presunzione di dire alcuna Verità, un’altra triste catena. Chi leggerà questa rivista potrà, se vuole, assaporare liberamente ogni parola e trovare un senso (o più) senza bisogno di manuali. Non c’è tutto e il contrario di tutto, o forse sì. Perchè il caos è propizio. Non c’è sicuramente la volontà di dare il senso che tutto vada bene, che qualsiasi interpretazione sia bella, perché chi scrive parte da un punto di vista individuale che come tale si scontrerà con quello di altrx. Le prospettive sono chiare, dentro chi scrive.

Un autore contemporaneo, sconosciuto ax più, una volta interpellato sul senso di scrivere in questi tempi, dopo così tanti secoli di letteratura, rispose che ogni cosa può essere detta in infiniti modi: ed è quello il senso di continuare a scrivere, ancora e ancora, per dire sempre meglio con altra lucidità, forza, poesia, ciò che desideriamo esprimere. Come ogni individuo dal quale scaturisce, uguale solo a se stessx, anche la sua produzione letteraria risulta unica.

Crediamo che il senso di questa rivista sia riassumibile in questa citazione parafrasata: ci sono e ci sono state analisi acute, filosofie trascinanti, letterature incisive, ma c’è sempre un qualcosa di nostro che possiamo dare. Ci riconosciamo nella critica radicale a questa realtà, e in un approccio non-positivo all’analisi dell’esistente e all’agire che vorremmo incentivare e praticare; specie in un periodo storico dove lo slogan sta sostituendo la riflessione, e la critica stenta a trovare una sua legittimità, soverchiata dai megafoni del potere e dalle bocche grigie dei servi che ripetono il copione con sempre maggior arroganza, sempre più veemente sordità.

Ci rivolgiamo a chiunque faccia della guerra a questo mondo anche uno strumento di introspezione e di critica: nel desiderio di veder il cielo denso della caligine levatasi dalle macerie fumanti non risparmiamo nemmeno la sfida di fare di noi stessx un campo di battaglia.

Consapevoli che anche nel migliore dei mondi (im)possibili ci sarebbero persone refrattarie allo status quo, e convintx che questo mondo non giungerà, ci preoccupiamo del tempo presente, delle devastazioni del potere e delle piccole e grandi miserie che anche noi serbiamo in grembo. Distruggere per poi costruire?

Certo, ma intanto distruggiamo. Il domani non esiste, ma la gioia provata nell’attimo in cui crolla un muro o un dogma o un nemico è l’affermazione che la vita ha la possibilità di scoprirsi felice.

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L'ipocrisia non conosce ritegno. Le istituzioni trasformano un pensiero di Primo Levi in uno slogan per ricordare la Giornata della Memoria, ma a forza di slogan non si capisce un granché... Per demistificare la neolingua del potere, vi proponiamo un estratto più corposo della frase presa quest'anno dalle istituzioni. Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, è anche importante smascherare le tristi baggianate che ci propina chi comanda. E in questo piccolo frammento troverete che l'orrore non si annida solamente in quello che è successo ieri, ma anche in ciò che accade oggi.

Forse, quanto è avvenuto non si può comprendere, anzi, non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare. Mi spiego: «comprendere» un proponimento o un comportamento umano significa (anche etimologicamente) contenerlo, contenerne l'autore, mettersi al suo posto, identificarsi con lui. Ora, nessun uomo normale potrà mai identificarsi con Hitler, Himmler, Goebbels, Eichmann e infiniti altri. Questo ci sgomenta, ed insieme ci porta sollievo: perché forse è desiderabile che le loro parole (ed anche, purtroppo, le loro opere) non ci riescano più comprensibili. Sono parole ed opere non umane, anzi, contro-umane, senza precedenti storici, a stento paragonabili alle vicende più crudeli della lotta biologica per l'esistenza. A questa lotta può essere ricondotta la guerra: ma Auschwitz non ha nulla a che vedere con la guerra, non ne è un episodio, non ne è una forma estrema. La guerra è un terribile fatto di sempre: è deprecabile ma è in noi, ha una sua razionalità, la «comprendiamo». Ma nell'odio nazista non c'è razionalità: è un odio che non è in noi, è fuori dell'uomo, è un frutto velenoso nato dal tronco funesto del fascismo, ma è fuori ed oltre il fascismo stesso. Non possiamo capirlo; ma possiamo e dobbiamo capire di dove nasce, e stare in guardia. Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre. Per questo, meditare su quanto è avvenuto è un dovere di tutti. Tutti devono sapere, o ricordare, che Hitler e Mussolini, quando parlavano pubblicamente, venivano creduti, applauditi, ammirati, adorati come dèi. Erano «capi carismatici», possedevano un segreto potere di seduzione che non procedeva dalla credibilità o dalla giustezza delle cose che dicevano, ma dal modo suggestivo con cui le dicevano, dalla loro eloquenza, dalla loro arte istrionica, forse istintiva, forse pazientemente esercitata e appresa. Le idee che proclamavano non erano sempre le stesse, e in generale erano aberranti, o sciocche, o crudeli; eppure vennero osannati, e seguiti fino alla loro morte da milioni di fedeli. Bisogna ricordare che questi fedeli, e fra questi anche i diligenti esecutori di ordini disumani, non erano aguzzini nati, non erano (salve poche eccezioni) dei mostri: erano uomini qualunque. I mostri esistono, ma sono troppo pochi per essere veramente pericolosi; sono più pericolosi gli uomini comuni, i funzionari pronti a credere e ad obbedire senza discutere, come Eichmann, come Hòss comandante di Auschwitz, come Stangl comandante di Treblinka, come i militari francesi di vent'anni dopo, massacratori in Algeria, come i militari americani di trent'anni dopo, massacratori in Vietnam. Occorre dunque essere diffidenti con chi cerca di convincerci con strumenti diversi dalla ragione, ossia con i capi carismatici: dobbiamo essere cauti nel delegare ad altri il nostro giudizio e la nostra volontà. Poiché è difficile distinguere i profeti veri dai falsi, è bene avere in sospetto tutti i profeti; è meglio rinunciare alle verità rivelate, anche se ci esaltano per la loro semplicità e il loro splendore, anche se le troviamo comode perché si acquistano gratis. È meglio accontentarsi di altre verità più modeste e meno entusiasmanti, quelle che si conquistano faticosamente, a poco a poco e senza scorciatoie, con lo studio, la discussione e il ragionamento, e che possono essere verificate e dimostrate. È chiaro che questa ricetta è troppo semplice per bastare in tutti i casi: un nuovo fascismo, col suo strascico di intolleranza, di sopraffazione e di servitù, può nascere fuori del nostro paese ed esservi importato, magari in punta di piedi e facendosi chiamare con altri nomi; oppure può scatenarsi dall'interno con una violenza tale da sbaragliare tutti i ripari. 

Primo Levi, Se questo è un uomo

Braccialetti. Una delle peculiarità dell’attuale situazione pandemica — che ripropone ad ognuno la vecchia domanda su quale possa essere il senso di una vita degna che vada oltre la semplice sopravvivenza — è quella di mettere un po’ più a nudo certe sbarre della prigione sociale.

Non si ingannava quel filosofo di Stato quando qualche decennio fa affermava che si poteva prevedere l’abolizione del carcere grazie alla sua diffusione capillare a tutta la società, piuttosto che la sua distruzione col mondo che ne necessita. Nel frattempo, come sempre, non stiamo assistendo ad un processo di sostituzione ma di accumulo. In materia energetica abbiamo il petrolio, il carbone, l’energia nucleare e giganteschi campi eolici o impianti fotovoltaici che continuano ad alimentare un mortifero produttivismo. Allo stesso modo, in materia carceraria siamo di fronte non solo a massicci accampamenti di indesiderabili attorno alle frontiere, alla costruzione di nuove galere (15.000 posti di detenzione supplementari entro cinque anni), ma anche ad una moltiplicazione delle forme di reclusione all’esterno delle quattro mura. Se si dovesse fare un solo esempio, senza nemmeno menzionare i tradizionali arresti domiciliari e altre costrizioni, il più indicativo sarebbe forse l’estensione del braccialetto elettronico. A fine dicembre, oltre ai 63.000 prigionieri stipati in carceri passate a modalità covid (con sistemi di videoconferenza, restrizioni delle attività e dei permessi d’uscita), ad altri 11.000 è stata allacciata alla caviglia una spia allarmata. Un aumento di guinzagli giudiziari elettronici che accresce le capacità carcerarie dello Stato e ormai va di pari passo con la volontà di imporli sotto forma di misure di sicurezza post-carcerazione nei confronti di quei detenuti che perseverano nelle loro idee (a cominciare da chi ha appena scontato una condanna per “terrorismo”). Eppure, a pensarci bene, essendo la prigione null’altro che lo specchio esacerbato di questa società tecnologica autoritaria, come sorprendersi quando la maggior parte dei sudditi dello Stato — ribelli compresi — vanno già a spasso fuori, volontariamente e permanentemente, con un microfono e un Gps in tasca, anche quando non stanno aspettando la fastidiosa chiamata di un padrone? Così, con il pretesto del covid-19, i portuali di Anversa o di Gien (Loiret), i liceali di Pechino, i malati o i viaggiatori in quarantena provenienti dalla Corea del Sud e dalla Polonia possono essere costretti a portare un braccialetto della salute che rileva a scelta la loro temperatura corporea, calcola la distanza che li divide dagli altri esseri umani o ne verifica la posizione, amplificando un medesimo movimento dove ciascuno diventa il secondino di se stesso. Quando il confine fra reclusione forzata e auto-reclusione da confinamento, fra trasformazione totalitaria dello spazio urbano e architettura carceraria contemporanea, tra guinzagli e braccialetti elettronici, si fa sempre più labile, la vita stessa — questo cuore a serramanico, come diceva il poeta — tende a diventare una pena in sé nella vasta prigione sociale.

È ovvio che esiste una differenza fra aprire una porta da soli e subire l’arbitrio di un boia in divisa, fra un isolamento dove la luce del giorno penetra a malapena e le strade deserte per decreto, fra privazione del significato e sostituzione del contatto umano con quello delle macchine, ma occorre constatare che la vecchia metafora secondo cui il carcere non è un’estensione della società essendo piuttosto quest’ultima a costituirne l’estensione, non ha perso la sua pertinenza. Anzi, tutt’altro. Quindi, se non possiamo evadere da una prigione sociale che ha ormai colonizzato tutto lo spazio, se le sue gabbie da bamboline russe si incastrano e si fondono l’un l’altra, quale possibilità ci resta, se non quella di distruggerla dall’interno? Coltivando con cura un mondo tutto nostro, respingendo gli assalti di un dominio che mutila ogni giorno la nostra sensibilità, devastando senza pietà le sbarre e i muri che ci tengono prigionieri. Tanti ostacoli alla libertà, che non s’incarnano più solamente nella pietra e nell’acciaio, ma anche nelle reti diffuse in fibra di vetro e rame che corrono sotto i nostri piedi e volano sopra le nostre teste. Se quasi un centinaio di antenne-ripetitori sono state sabotate nel 2020 malgrado i vari confinamenti, il fatto che queste strutture costituiscano un anello supplementare delle nostre catene ha forse una qualche attinenza.

Passaporto sanitario. Nel corso dell’ultima grande epidemia di peste conosciuta in Francia, avvenuta nel 1720 quando alcuni mercanti e notabili fecero sbarcare comunque il loro carico di stoffe e di cotone da una nave in quarantena nel porto di Marsiglia, furono impiegati due particolari tipi di dispositivi. Da un lato, usare gli schiavi delle galere, cioè i condannati ai lavori forzati, per far raccogliere i cadaveri dalle strade con le baionette, e poi gettarli in antichi bastioni e ricoprirli di calce viva. Dall’altro, costruire un po’ più a distanza un Muro della peste, sorvegliato giorno e notte dalle truppe francesi e papaline, allo scopo di isolare le regioni colpite e impedire che il bacillo si diffondesse sul resto del territorio. Beninteso, i ricchi avevano già lasciato Marsiglia per rifugiarsi nelle loro bastie, ed essendo l’economia un imperativo irrinunciabile al di là di ogni altra considerazione, i viticoltori facevano consegnare dagli uffici sanitari ai propri vendemmiatori un cartellino contrassegnato con lo stemma della città come lasciapassare. Fino alla fine dell’epidemia nel 1722, le autorità emanarono così migliaia di salvacondotti attestanti che il loro vettore era in buona salute, mentre comunicavano le istruzioni reali qualora i residenti fossero stati sorpresi a varcare il muro: «Farli arrestare con ogni precauzione per non trasmettere [il Male], riportarli nel loro territorio e spaccar loro la testa davanti ai propri compatrioti, esempio assolutamente necessario per contenerli».

Quasi trecento anni più tardi, né le priorità di un sistema mortifero e neanche le ingiunzioni del potere sono in fondo cambiate, sebbene il covid-19 sia senz’altro meno contagioso e mortale (prima di nuove mutazioni?) della peste nera. Certo, le tessere sanitarie si sono trasformate in certificati vaccinali prima dell’istituzione più o meno esplicita di un passaporto sanitario, gli antichi lasciapassare comunali sono diventati attestazioni ministeriali su smartphone, l’autorità religiosa delle multicolori guardie pontificie si è tramutata in un potere scientifico in camice bianco, il Codex nazionale che regola la produzione di farmaci non raccomanda più di ingurgitare pozioni a base di aceto, ma piuttosto di farsi iniezioni a base di RNA messaggero, e i refrattari al confinamento si fanno un po’ meno spaccare la testa e un po’ più tassare (o entrambe le cose), mentre i forzati devono ancora trasportare cadaveri di contagiati in tutto il pianeta e scavarne le fosse. No, ciò che è cambiato radicalmente alle nostre latitudini sono altri tre secoli di addomesticamento statale: non c’è bisogno di un Muro della peste quando una servitù volontaria unita alla tecnologia sembra essere sufficiente a limitare i movimenti collettivi del gregge. Quanto alle pecore nere mai attratte veramente dal loro odore, ci scommettiamo che sapranno ancora una volta esplorare strade secondarie per rifiutare l’aria dei pastori e attaccarli di sorpresa.

Traduzione Finimondo

Per leggere l'intero nuovo numero in francese: Avis de Tempêtes Numero 37 PDF

In questi giorni si fa un gran parlare di transizione energetica in città, quando si nasconde il fatto che sembra più l'accumulazione della catastrofe. Tutta l'arco istituzionale cittadino mente sapendo di mentire. E anche chi crede ai venerdì del futuro fa lo stesso, perché la politica è l'arte della menzogna generalizzata. Veramente vogliamo credere a chi vince le elezioni toccando le corde delle anime belle dell'ambientalismo dicendo che chiuderà l'inceneritore per poi posticipare la chiusura fra vent'anni? Veramente vogliamo credere a chi finanzia Citelum per cambiare l'illuminazione pubblica, nota ditta di proprietà di EDF, mostro francese che produce il nucleare nella vicina Francia? Ormai la proposta verde del capitalismo mette d'accordo molti, sia chi sta alla destra del potere sia chi sta alla sua sinistra, ma il colore del risultato è sempre lo stesso, il rosso sangue delle morti provocate da inquinamento dell'aria e dalla corsa all'atomo, producendo disastri palesi come Hiroshima, Nagasaki, Fukushima e Chernobyl. E gli opportunisti fanno finta di non vedere: il problema è che questo mondo si basa sullo sfruttamento di qualunque risorsa e sulle guerre per depredare qualunque territorio. Non esiste transizione, ma solo addizione che sostiene questo mondo mortifero.

Con questo testo vorremmo mettere dei dubbi a tutti quegli individui che hanno ancora voglia di non bersi tutte le tristi cazzate del dominio. Buona lettura.

La casa del diavolo

«Il diavolo si è installato in un nuovo domicilio. E anche se fossimo incapaci di farlo uscire dal suo rifugio da un giorno all’altro, dobbiamo per lo meno sapere dove si nasconde e dove possiamo stanarlo, per non combatterlo in un angolo in cui non trova più rifugio da molto tempo — e affinché non si prenda gioco di noi nella stanza accanto»

Günther Anders

Per sviscerare la questione dell’energia, o meglio delle risorse energetiche da cui dipende il buon funzionamento dello sfruttamento capitalista e del potere statale, non serve un elenco di dati tecnici su questa o quella fonte di energia, o un calcolo delle nocività generate dalla voracità energetica del sistema industriale e l’enumerazione delle conseguenti devastazioni a livello ambientale. In linea di massima, sono sotto gli occhi di chi sa e vuole vedere.

A seguito dell’imposizione del nucleare da parte dello Stato, e con una crescita esponenziale dei bisogni energetici della produzione industriale, della guerra e del modello societario di consumo di massa, sono innumerevoli i conflitti legati alle risorse energetiche, alla produzione ed al trasporto di energia. Da un lato, gli Stati scatenano continue guerre per conquistare ed assicurarsi il rifornimento di determinate risorse, come il petrolio o le miniere di uranio. Dall’altro, si moltiplicano i conflitti cosiddetti sociali, a volte più ecologici, a volte radicalmente anticapitalistici, a volte di rifiuto di un’ulteriore devastazione del territorio o dell’imposizione di certi rapporti sociali conseguenti a quei progetti — come l’opposizione allo sfruttamento di una miniera, alla costruzione di una centrale nucleare, o alle nocività causate da una centrale elettrica a carbone.

Il lungo elenco di lotte e di guerre ci dà già un’idea dell’importanza che riveste l’energia, la sua produzione e il suo controllo.

Oggi, in tempi in cui ogni prospettiva rivoluzionaria di trasformazione totale dei rapporti esistenti, di distruzione del dominio, sembra essere quasi scomparsa, almeno nei paesi europei, esistono tuttavia non poche lotte di opposizione alle infrastrutture energetiche. Pensiamo alla gigantesca miniera di lignite a cielo aperto di Hambach, in Germania, dove la lotta contro la sua estensione è scandita da numerosi sabotaggi di ogni tipo che inceppano il funzionamento della miniera esistente; o alla lotta contro la costruzione del gasdotto TAP in Italia; o alle lotte in Francia contro la costruzione di nuove linee di alta tensione; o alle proteste contro l’installazione di nuove turbine eoliche o contro i permessi di esplorazione e sfruttamento del gas di scisto... Certo, tali conflitti non denotano sempre aspirazioni rivoluzionarie, e spesso al loro interno albergano il cittadinismo, l’ecologismo cogestionario, la ricerca di dialogo (quindi di riconoscimento) con le istituzioni, oltre ad una fastidiosa confusione. Ancor peggio, sovente sono afflitti da un evidente opportunismo politico, sul modello di ciò che i comitati invisibili e gli strateghi populisti di servizio teorizzano sotto forma di strategia della composizione: il tentativo di riunire tutto ciò che è incompatibile sotto la direzione di un alto comando politico.

Tutte queste lotte, a noi anarchici e anti-autoritari — che scrutiamo sempre l’orizzonte per scoprire i segni del malcontento e di possibili sbocchi insurrezionali, dimenticando troppo spesso l’importanza di agire in prima persona, sulla base di idee e di tensioni nostre — non potrebbero farci immaginare un progetto di lotta, non necessariamente nuovo ma abbastanza assente da qualche tempo, che proponga di tagliare l’energia a questo mondo, qualsiasi energia, sia essa nucleare, termica, solare, eolica?

Ma andiamo con ordine. Che cos’è questa Energia di cui si parla? Pur trattandosi di un termine che proviene dal lessico delle scienze fisiche, per misurare e quantificare determinati processi come ad esempio il calore, in genere si tende ad equiparare l’energia alla vita. Senza energia, niente vita. Senza energia, niente movimento. Oggi però il discorso sull’energia è penetrato dappertutto, anche dove in passato veniva ancora e giustamente distinto dai processi vitali. Per determinare la vita si misura ad esempio l’energia chimica delle cellule — base della vita biologica — ed è così che la stessa consapevolezza che la vita sia molto più di una serie di dati chimici o di un filamento di DNA, tende rapidamente a svanire. Non dimentichiamo che ciò che non è quantificabile non può essere accumulato. Quindi la qualità, come l’esperienza singolare, le passioni, le sensazioni, insomma tutto ciò che costituisce la poesia della vita, non possono essere misurate e facilmente trasformate in merce. Energia, quindi, non è sinonimo di vita. La distinzione potrebbe sembrare un po’ ridicola, un po’ superflua, ma non lo è: se proponiamo di tagliare l’energia a questo mondo, questa precisazione preliminare assume tutta la sua importanza.

Quando parliamo di energia, di risorse energetiche, è necessario quindi intendersi. Non si tratta, come solitamente si dice nella lingua parlata, che «l’umano libera energia» contenuta nell’atomo, nel petrolio, nell’olio di colza, nel gas o nel vento. No, è attraverso strumenti, strutture, processi e macchine che l’energia viene misurata, prodotta, generata, convertita, accumulata, immagazzinata e trasportata. Il soffio del vento non è semplice «energia cinetica»: occorrono pale eoliche, turbine, cavi e quant’altro per trasformarlo in energia elettrica.

Ci sarebbe molto da dire sulla conversione delle risorse in energia elettrica ad uso industriale o domestico, e sul rendimento di queste conversioni. Basti pensare a quanti litri di petrolio sono necessari per produrre un chilo di grano, che si potrebbe a sua volta quantificare in termini di energia (calorie), per constatare come il rendimento dell’agricoltura industriale a petrolio non sia affatto così razionale come si pensa.

Riprendiamo allora il filo: col termine Energia intendiamo tutti quei procedimenti, oggi quasi tutti industriali, utilizzati per convertire qualcosa in forza motrice, in energia elettrica. Checché se ne dica, questi diversi procedimenti messi a punto nel corso della storia non derivano da una semplice volontà di razionalizzazione, ed ancor meno da una preoccupazione etica o ambientale come millanta oggi il dominio, che investe massivamente nello sfruttamento di altre risorse come le cosiddette energie rinnovabili in conseguenza di precise strategie. La generalizzazione dell’uso del petrolio come carburante è istruttiva a tal proposito, essendo in buona parte una risposta, non solo a scopo preventivo contro i rischi di una paralisi della produzione, ai movimenti operai rivoluzionari sviluppatisi massicciamente proprio alla fonte della riproduzione del capitalismo. Benché lo sfruttamento del petrolio necessiti anch’esso di manodopera, i pozzi non ne richiedono quanto una miniera di carbone.

A sua volta, la nuclearizzazione del mondo non deriva affatto da una presunta ricerca di indipendenza energetica, in risposta alle crisi petrolifere, quanto dalla necessità di assoggettare le popolazioni. Con il nucleare, l’organizzazione gerarchica è diventata tecnicamente inevitabile, ponendo grossi ostacoli ad ogni orizzonte rivoluzionario di sconvolgimento dell’esistente. In altre parole, lo sfruttamento di una tale fonte energetica segue i disegni del dominio.

Ma allora, le energie rinnovabili odierne, in nome delle quali le colline ed i mari sono coperti di pale eoliche, i campi ed i deserti di pannelli fotovoltaici, le valli inondate e il corso e il flusso dei fiumi modificati e regolamentati? Una preoccupazione ambientale? Certo che no, oppure sì, se intendiamo la loro estensione come la prosecuzione dello stesso mondo industriale con altri mezzi. Le irreversibili devastazioni e contaminazioni lasciate in eredità da due secoli di industrialismo spingono oggi gli Stati a cercare soluzioni e superamenti tecnici per ridurre l’inquinamento e l’avvelenamento. Si tratti di fantasmi o di possibilità reali, il risultato è lo stesso: è la perpetuazione di quello stesso dominio che vogliamo abbattere.
Le energie rinnovabili tentano oggi di mitigare un rischio importante. Cioè, per far fronte a bisogni energetici esponenziali e ad una dipendenza sempre maggiore da un rifornimento elettrico stabile di interi settori dell’economia, dell’amministrazione statale o dell’orizzonte cibernetico che si afferma ad una velocità e con una potenza impossibili da sopravvalutare, il dominio deve non solo moltiplicare, ma anche diversificare i processi per generare energia elettrica. E visto che i progressi tecnici consentono oggi un rendimento più elevato (sebbene le pale eoliche abbiano un fattore di capacità molto basso, attorno al 20%), il sistema si è lanciato in questa diversificazione energetica con le energie dette rinnovabili. Per l’ennesima volta, non si tratta di una transizione energetica, bensì di una addizione, come dimostra non solo il fatto che le centrali nucleari o convenzionali non siano state tutte chiuse, ma che altre nuove centrali vengano costruite o sviluppate, che altre fonti di energia vengano esplorate, testate ed utilizzate (come gli impianti a biomassa) e che uno dei tre principali programmi di ricerca finanziati dall’Unione Europea sia quello del trasporto di elettricità per cercare, soprattutto attraverso l’uso di nano-materiali, di ridurre al minimo la perdita di calore sulle linee.

In generale, motivi economici e di controllo sociale a parte, le energie rinnovabili consentono di accrescere la capacità di continuare a funzionare in caso di intoppi: di una tempesta, di un accidente o di un sabotaggio. Ciò determina anche un decentramento della rete elettrica, con strutture disseminate dappertutto, quindi più facilmente attaccabili, anche in considerazione della vasta rete di trasporto e distribuzione da cui deve necessariamente dipendere.

Non sorprenderà nessun nemico dell’autorità che le infrastrutture energetiche siano quindi classificate dall’Unione Europea (così come da quasi tutti gli Stati del mondo) con il leggiadro eufemismo di «infrastrutture critiche», si tratti di una centrale, di un gasdotto, di una linea d’alta tensione, di trasformatori elettrici, di pale eoliche o di pannelli fotovoltaici. Nella relazione annuale 2017 dell’Agenzia di osservazione delle tensioni politiche e sociali nel mondo (sovvenzionata dai giganti mondiali delle assicurazioni), si poteva leggere che sull’insieme di attentati e sabotaggi contati come tali nel mondo e compiuti da attori «non statali», messe insieme tutte le tendenze ed ispirazioni, niente meno che il 70% hanno riguardato infrastrutture energetiche e logistiche (ossia: tralicci, trasformatori, oleodotti e gasdotti, antenne di trasmissione, linee elettriche, depositi di carburante, miniere, ferrovie). Indipendentemente dalle motivazioni che stanno dietro a tutti questi sabotaggi, che possono essere le più disparate, ciò su cui ci interessa riflettere è la possibilità di una progettualità anarchica su questo terreno — sapendo che l’energia è un perno del dominio, necessaria alla sua riproduzione oltre che all’acquietamento dei dominati.

In altre parole: disponiamo di analisi sufficienti per comprendere il ruolo svolto dall’energia, per cogliere l’importanza dei nuovi progetti energetici, ed è immaginabile sviluppare e proporre un metodo di lotta basato sull’azione diretta, la conflittualità permanente e l’auto-organizzazione che miri alle infrastrutture che permettono a questo mondo di alimentarsi di energia? Riusciamo ad immaginare ed elaborare una progettualità che riesca a portarci al di là delle occasioni offerteci dal calendario dell’attualità, così da determinarne noi stessi i tempi e gli angoli d’attacco?

Sì, perché, se gli anarchici smettessero di correre dietro agli avvenimenti (anche quando si presentano situazioni simpatiche come scontri con la polizia o azioni distruttive), potrebbero cercare loro stessi di creare gli avvenimenti. Non subire l’iniziativa altrui, ma prendere l’iniziativa. Non seguire il corso delle cose, ma andare contro corrente, vivificare la nostra corrente nel fiume della guerra sociale. È da lì che bisognerebbe partire: da un progetto autonomo che sia nostro, che intervenga in una realtà che ci circonda e ci ingloba, un progetto che renda possibile l’agire, che ci proietti nella realtà della guerra sociale con degli obiettivi in mente, con metodi e proposte nostri, con approfondimenti per cercare di cogliere i movimenti del nemico.

Non può essere la realtà a surclassarci, a suggerirci o sconsigliarci le cose da fare. Smettiamo di correre dietro agli altri solo perché è la situazione del momento o il soggetto politico del giorno (cioè senza altra idea in testa se non quella di partecipare). Se parliamo agli altri, è perché abbiamo qualcosa da dire, da proporre e da suggerire. Se analizziamo i conflitti che avvengono intorno a noi, non è per perdere la nostra bussola nell’ammirazione o nel disgusto di quanto fanno o non fanno gli altri. Se disertiamo le scene della contestazione concertata e della composizione, è per aprire terreni di lotta su ben altre basi.

Elaborare una progettualità anarchica nostra che ci permetta di agire in prospettiva, qualcosa che abbiamo creato, che ci appartiene, che amiamo, che approfondiamo, senza farci limitare da ciò che succede vicino a noi, da ciò che si dice nei social network o nei siti di movimento, attraverso cui l’attualità viene bombardata come soggetto da commentare all’infinito... tutte cose che alla fine subiamo. Senza progettualità è difficile arrivare da qualche parte, si finisce con l’agitarsi e lasciarsi agitare senza orizzonti propri.

Ecco perché elaborare una progettualità contro l’energia e il suo mondo. Pur essendo vero che finché non si prova non sappiamo cosa possa generare in termini di trasformazione sociale il suo disturbo o la sua paralisi, ciò non toglie che è indispensabile che la macchina si fermi perché possa emergere qualcos’altro. Esistono già molti conflitti in atto o emergenti, che possono consentire superamenti insurrezionali nel contesto di lotte specifiche contro un obiettivo preciso, come potrebbe esserlo ad esempio una nuova centrale nucleare, una miniera, un parco eolico o una linea ad alta tensione. Ma, soprattutto, il modo in cui è costruito il sistema energetico (dalle centrali elettriche ed eoliche ai trasformatori, dalle linee ad alta tensione alle scatole elettriche di media tensione, che corre sotto i marciapiedi e lungo le strade) non richiede una concezione centralista o autoritaria dello scontro, al contrario. Una simile progettualità fa appello a piccoli gruppi autonomi, che agiscano ognuno secondo la propria analisi, la propria abilità, la propria creatività e le proprie prospettive, praticando l’azione diretta contro decine di migliaia di obiettivi dislocati ovunque, spesso senza particolari difese e raggiungibili in molti modi differenti.

Se la storia delle lotte rivoluzionarie è piena di esempi significativi sulle possibilità d’azione contro ciò che fa girare la macchina statale e capitalista, basta gettare uno sguardo alle recenti cronologie di sabotaggi per accorgersi che in diversi contesti europei nemmeno il presente ne è sprovvisto. A patto di disfarsi degli imbarazzi che accompagnano molto spesso i dibattiti tra rivoluzionari quando si tratta di tagliare la corrente di questo mondo, per affrontare la questione di una progettualità indispensabile per emanciparsi dal triste destino di anarchici troppo spesso al rimorchio di altri. Nessuno può prevedere a cosa ciò potrà portare, ma una cosa è certa: è una pratica di libertà.

Tratto da Filo Scoperto (febbraio 2020)