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CREMONA

La volontà giuridica di concludere quanto prima la storia repressiva sulla bellissima rivolta del 24 gennaio 2015 avvenuta a Cremona, in solidarietà ad Emilio, sprangato e mandato in coma da un manipolo di fascisti di Casapound sei giorni prima è oramai prossima.

L’udienza che si sarebbe dovuta tenere il 2 maggio 2018 in una squallida aula di tribunale della Corte di Cassazione a Roma, a causa di uno sciopero indetto dall’ordine degli avvocati, è stata rinviata e fissata ora il 25 settembre.

Lorsignori, riesumando dal reazionario codice Rocco l'abominevole 419 c.p. alias "devastazione e saccheggio", e appioppando anni di galera, si illudono di poter smorzare e soffocare quei frammenti di rivolta che esplosero a Cremona.
Tre dei quattro imputati vedranno la fine di questo processo, uno di loro non ha presentato ricorso in Cassazione.
Di questi tre imputati, uno è l'infame Aioub Babassi a cui va il nostro disprezzo.
Ricordiamo che per altri quattro arrestati per quella giornata, l'accusa di devastazione e saccheggio è caduta. Questo secondo filone deve ancora andare in secondo grado, dato che il Comune di Cremona ha fatto ricorso contro la sentenza.
Che giornate come quelle vissute a Cremona echeggino per crearne delle altre, ancora più rivoltose.
24 gennaio ogni giorno.

alcune/i antifasciste/i

ROMA

Il 15 ottobre 2011 a Roma si riuscì, per una giornata, a respirare un’aria diversa dalla rassegnazione alla quale sembriamo spesso ridotti/e: in un clima generale di “indignazione”, si respirò rabbia.

Una giornata che vide, lo ribadiamo, migliaia di persone in piazza. Di quelle migliaia non furono certo poche quelle che decisero di rispondere alla guerra che lo Stato perpetua unilateralmente attraverso le sue politiche economiche, sociali, repressive etc.  Molti luoghi simbolo dello sfruttamento e di un mondo che non vogliamo, perché fondato solo su aride logiche economiche, furono presi di mira. Ci fu rabbia sì, ma ci fu anche la gioia del respirarla assieme.

Ma, da quella giornata, di tempo ne è passato e il clima sembra essere profondamente mutato.

Il 13 settembre si apre il processo di appello contro 15 persone condannate a pene che arrivano fino ai 9 anni anche per il reato di devastazione e saccheggio.

Capo d’imputazione, questo, che è lo stesso utilizzato contro chi era in strada a Cremona il 24 gennaio 2015, e per cui è stata fissata l’udienza di Cassazione per il 25 settembre prossimo. Lo stesso reato, inoltre, lo troviamo come capo di accusa per la manifestazione contro le frontiere al Brennero, per cui l’inizio del processo si prevede essere il 22 ottobre.

Devastazione e saccheggio è uno tra i tanti strumenti di cui la repressione si dota per elargire lunghi anni di esclusione nelle galere a chi è condannato/a ma anche, e non secondario, come deterrente per tutti e tutte: il dissenso deve ridursi a innocui e silenziosi cortei, sempre più simili a tristi manifestazioni funeree.

Uno strumento che insieme, per esempio, ai vari daspo o alle plurime misure amministrative rivolte a chi deve essere messo ai margini della società, sono volte a svuotare le strade, a ridurre i momenti di incontro e di lotte condivise.

Ecco perché il processo contro i fatti del 15 ottobre non può né deve riguardare solo chi si troverà ancora in prima persona imputata in quelle aule.

La solidarietà è non solo sostegno a chi vive sulla propria pelle la repressione, non lasciandolo/a isolato/a nel silenzio che inevitabilmente sottrae la forza e il senso di reagire rivendicando le proprie azioni. Solidarietà è anche assunzione, in prima persona e collettiva, di responsabilità per la prosecuzione delle stesse lotte, di quegli spazi di agibilità che vadano oltre quei paletti che sempre più le forze reazionarie ci impongono e che, giorno dopo giorno, vorrebbero ridurre i nostri spazi vitali.

Di tutto questo e non solo si è discusso durante l’incontro, del 7 settembre, che si è tenuto al Campetto occupato di Giulianova insieme a chi il 13 settembre dovrà essere ancora in aula.

Il 13 settembre l’udienza presso la Corte di Appello di Roma potrebbe essere breve a causa di possibili cavilli giuridici, quali difetti di notifica e/o altro. Ciò nonostante durante la riunione di Giulianova alcuni e alcune delle compagne hanno manifestato la volontà di essere presenti quella mattina, per restare vicini a chi sarà ancora una volta giudicato/a in quell’aula e per avere cognizione di quali saranno gli sviluppi processuali.

La cassa di solidarietà “La Lima” si impegna a contribuire, attraverso iniziative di solidarietà, al sostegno economico per coloro che sono ancora a processo per rispondere di quanto accaduto in quella giornata del 2011. L’impegno dei compagni e delle compagne considera e condivide le motivazioni che portarono, nel maggio 2016, alla chiusura della “cassa di solidarietà 15 ottobre”. Ma durante l’incontro al Campetto occupato si è anche condivisa l’idea che, oltre al contributo economico, la solidarietà non può essere ridotta solo a pubblicazioni ed entusiastici commenti su social network, di enfatiche immagini di camionette in fiamme e scontri con le guardie.

Si è quindi deciso di individuare nella data 15 ottobre 2018, in ogni città e luogo, una giornata di sostegno attraverso le molteplici pratiche in cui ognuno e ognuna si riconosce. Un appuntamento che attesti la non rimozione di quella giornata di lotta ma che sia, al contrario, espressione dello spirito condiviso in quelle strade.

I Compagni e le Compagne

 

Riprende il rito annuale di riapertura delle scuole. Possiamo pronosticare, molto facilmente, che riemergeranno i soliti problemi: l’agibilità delle scuole, le disponibilità degli insegnanti, le tasse, la legge finanziaria, i trasporti pubblici, la disoccupazione, ecc. E, altrettanto certamente, si può ipotizzare che riemergerà un movimento degli studenti con proposte più o meno identiche a quelle dell’anno scorso. Rivendicative e riformiste. Proposte scontate e movimento altrettanto ovvio.

Difficile

Può forse l’insegnamento del’anno scorso servire a qualcosa? Può il fallimento delle grandi mobilitazioni su temi generici e biecamente parziali, servire a fare aprire gli occhi agli studenti che, per la maggior parte, sono gli stessi dell’anno scorso? Pensiamo che la cosa sarà molto difficile. Comunque possiamo sempre insistere sul problema della funzione della scuola e portare quanti più giovani possibili ad una coscienza di classe nei riguardi di questa istituzione che serve, appunto, come strumento di qualificazione ridotta allo scopo di consentire l’accettazione del dominio, una migliore flessibilità della mano d’opera a una sua adattabilità alle mutate condizioni del mercato del lavoro.

Nessuna Prospettiva

La scuola di oggi non produce più qualificazione (né tecnica, né umanistica), ma si è adattata alla realtà del sistema produttivo attuale. Essa produce pace sociale, convincendo i giovani della possibilità di ottenere studiando, un diverso status sociale, rendendolo più malleabile, ma, nello stesso tempo, fornendo pochi strumenti effettivi di conoscenza e di cultura e, per giunta, strumenti dequalificati, confezionati in formato ridotto ad uso delle attuali generazioni e della loro pseudo cultura massificata. Mai come oggi la scuola è stata tanto trasparente. Puleggia del potere, veicola i contenuti ridotti che consentono di tenere a bada una larga parte della massa. Il vecchio analfabetismo, su cui si basava il potere del passato, è stato ammodernato e mantenuto nella scuola di oggi che produce analfabeti di nuovo tipo, i quali sanno leggere e scrivere, ma solo quelle poche cose che il potere ha previsto che potessero leggere e scrivere. Mettete uno di questi giovani davanti ad un testo impegnativo o davanti la necessità di scrivere qualcosa di più complesso dei risultati delle partite di calcio e potete constatare le enormi difficoltà cui andrà incontro. Tutto ciò (con le dovute eccezioni, evidentemente) non è accidentale. Accertata la funzione repressiva e mistificante della scuola bisognerà decidersi su cosa fare. Ci pare esistano due strade. Distruggerla o utilizzarla.

Distruzione

Distruggerla è la soluzione migliore. Più efficace e sbrigativa. In questo caso il sabotaggio, l’attacco diretto, la violenza rivoluzionaria contro le cose e le persone che fanno parte della scuola come padroni e gestori, sono le cose più efficaci ed immediate da fare. Utilizzarla è la cosa più difficile

Utilizzazione

Occorre procedere con cautela per evitare di essere utilizzati invece di strappare via qualcosa al potere. In fondo, però, la scuola è un laboratorio dove di possono ancora trovare pochi strumenti culturali di carattere elementare. Questi strumenti possono essere strappati alla scuola con metodo e costanza, ed anche con una lotta che può utilizzare, ad esempio, lo strumento dell’autogestione. In questo senso, il movimento delle occupazioni delle scuole può riscoprire un nuovo modo di lottare che forse potrà essere recuperato difficilmente dal potere.

Redazione di Catania

[Anarchismo n.53-54 settembre 1986]

fonte: parolealvento.noblogs.org

Lei c'era alla manifestazione contro gli stranieri che si è tenuta pochi giorni fa a Chemnitz, in Germania. Il giornale che l'ha intervistata le ha assegnato un nome fittizio, Silvia Fascher. Non è un'estremista di destra e ci tiene a chiarirlo. Ha 64 anni e lavora in una ditta di pompe funebri. L'altro giorno è scesa in piazza con il figlio, assistente di anziani. Domenica 27 erano in 800, il giorno dopo in 2000. Accanto ai filonazisti, assieme ai filonazisti, anche lei sbraitava contro pochi ragazzi siriani. È la pancia, la pancia che urla, direbbe qualcuno; «non voglio che arrivino altri stranieri. Quando li guardo, mi domando perché le mie tasse vengano usate per loro. Vogliono solo diventare calciatori professionisti o cambiavalute, ma se devono lavorare un po' sodo si lamentano di avere il mal di schiena!».
Sebbene li consideri dei parassiti scansafatiche aspiranti emuli di Cristiano Ronaldo, Silvia Fascher dichiara di essere consapevole dei tragici motivi che spingono gli immigrati a lasciare il proprio paese. Ma non capisce perché la loro situazione dovrebbe essere più importante di quella dei milioni di tedeschi che vivono sotto la soglia di povertà. Ecco perché si dice furibonda contro il governo, che «non fa niente». Tra un anno lei andrà in pensione, ma non prenderà nulla, una miseria.
Quando hanno chiesto a Silvia Fascher perché, dopo aver valutato l'intera situazione, considera i rifugiati più responsabili dei politici, dei banchieri, degli industriali... sapete cosa ha risposto? «Perché bisogna essere contro qualcuno; e con loro è semplice».
Già, proprio così. Discutere è complicato, ruttare è semplice. Prendersela con i carnefici responsabili di quanto sta accadendo è arduo, fare i bulli con le loro vittime trasformate in capri espiatori è semplice. Disobbedire ai potenti è difficile, collaborarci è semplice.
Prendiamo i gagliardi di Casa Pound, ad esempio. Anche loro conoscono bene a fondo la questione dell'immigrazione, infatti la loro protesta non è «un attacco ad un gruppo di disperati raccattato in mezzo al mare, ma la denuncia del business dell’immigrazione». Ma organizzare manifestazioni eclatanti contro chi sfrutta la tragedia degli immigrati è complicato — si tratterebbe di mettere in discussione buona parte dell'italica economia — accogliere con urla e braccia tese i profughi straccioni della Diciotti al loro arrivo a Rocca di Papa è semplice.
Lo stesso si può dire per i prodi di Forza Nuova, i quali si dicono pronti ad allestire patiboli in piazza per gli stupratori: «non possiamo lasciare le nostre donne in balìa di esseri che hanno nella loro cultura il disprezzo per le donne cristiane ed europee». Ma impiccare fantocci blu davanti alla scuola di polizia a Brescia (da dove provenivano i due stupratori della turista tedesca a Rimini, loro sì rispettosi delle donne cristiane ed europee) è arduo, impiccare sagome nere sulla spiaggia di Jesolo è semplice.
Inutile poi parlare del ministro Salvini. Chiudere le fabbriche che riforniscono di armi le guerre che devastano quei paesi lontani già impoveriti dal colonialismo è difficile (nonché controproducente per il bilancio nazionale, chiodo fisso di ogni uomo di Stato), chiudere i porti a chi cerca di scamparvi è semplice.
Ecco perché oggi una Silvia Fascher ripete gli stessi ritornelli cari a Casa Pound, Forza Nuova o Salvini, ed il razzismo più becero sta dilagando a macchia d'olio. Perché è semplice.
Chemnitz, Germania, fine agosto 2018. Benvenuti nella guerra civile.
30/8/18, tratto da https://finimondo.org/

Per affrontare l'argomento complesso quanto sconsolante che viene spesso definito «perdita del linguaggio», forse potremmo partire da qualche esempio. Sebbene molto utilizzato, non sempre è il modo più onesto di procedere. Nello scegliere gli esempi, infatti, si può facilmente falsare il ragionamento o magari portare il lettore o l'interlocutore a conclusioni già preesistenti nella mente di chi scrive o parla. Partire dall'esempio, da ciò che comunemente viene chiamato «un fatto», sottolinea il più delle volte una deduzione logica che cammina su un solo piede: si sceglie il «fatto» per arrivare più facilmente ad una conclusione. Ma il ragionamento diventerebbe monco se un altro «fatto» venisse preso come punto di partenza. Da notare che le discussioni o i dialoghi girano spesso a vuoto proprio a causa di tali procedimenti: viene sollevato un fatto per «provare» una tesi, un altro viene sollevato per contestarla, e così via… Alla fine, la discussione ristagna perché non riesce ad andare oltre, verso un dialogo reciproco sulle idee, cosa ben diversa da un duello di fatti, sempre interpretabili e re-interpretabili a volontà, con l’ausilio delle acrobazie del linguaggio.
Ciò detto, procediamo con brio. Poniamo che alcuni anarchici si ritrovino in una piazza a distribuire volantini contenenti un testo con un linguaggio conciso, che parlano di qualcosa che è accaduto (una rivolta, una bella azione diretta, l'annuncio di un progetto del potere, una repressione particolare, poco importa), che bene o male analizzano il contesto in cui la cosa ha avuto luogo e che arrivano, talvolta a colpi di slogan un po’ scontati ma non sempre, a proporre in quella piazza un ragionamento o un'evocazione delle loro idee generali contro questo mondo e sulla vita. Siamo veramente sicuri che un tale volantino possa ancora essere compreso? Perché per arrivare ad una «comprensione» (a titolo contro-informativo, per sollevare i cuori e le braccia, per cercare complicità, per identificare il nemico, poco importa), sono comunque necessari alcuni elementi di base. Ciò che per l’uno è un «fatto che è successo» non lo è necessariamente per l'altro, perché non può collegare l'evocazione di quel fatto con nulla di quanto abbia visto su youtube e seguito sulla sua bacheca facebook. Per quanto riguarda l'analisi di quel fatto, alcuni strumenti della ragione sono altresì indispensabili — è difficile cogliere un'analisi unicamente col sentimento — come i procedimenti logici o una certa capacità di concettualizzare, al fine di poter passare da un fatto ad un contesto o di poter mettere in relazione due fatti singolari. Una tale lettura finalizzata alla comprensione di un semplice volantino, pur essendo ovviamente diversa a seconda di ogni individuo, richiede inoltre un minimo di tempo e una certa concentrazione. Infine, per effettuare il salto dall'analisi all’ambito delle idee, si impongono all’individuo altre esigenze ancor più stravaganti: immaginazione, astrazione, creatività, capacità di ragionamento... Insomma, siamo davvero sicuri che il nostro volantino possa ancora essere compreso?
In passato, nonostante il loro numero sovente limitato, gli anarchici hanno prodotto incredibili quantità di carta. Volantini, giornali, riviste, opuscoli, libri. Accanto all'agitazione orale, venivano usati tutti i mezzi scritti per far vacillare le certezze, nutrire le menti, scuotere il pensiero, spezzare le catene della superstizione e del pregiudizio, diffondere l'idea. Al confronto, malgrado il loro numero spesso ben più superiore, socialisti e comunisti non si sono impegnati in maniera così insistente e stupefacente quanto gli anti-autoritari.
Certo, la lotta contro l'analfabetismo non è stata condotta solo dagli anarchici. Socialisti, progressisti, filantropi ed a partire da un certo momento anche religiosi se ne sono occupati. Infine, con la crescente necessità del capitalismo di disporre di una manodopera leggermente più istruita, con la tendenza dello Stato a rafforzare sempre più il suo controllo sugli individui al fine di trasformarli in «cittadini», specialmente attraverso l’educazione scolastica e, perché no — non siamo pii credenti del solo determinismo economico — con una certa volontà liberale di emancipare i «poveri di spirito», l'analfabetismo non è più stato considerato dal dominio una virtù, ma una piaga. Ovviamente, saper leggere e scrivere non è una capacità «neutra». È intrinsecamente legata al linguaggio, che a sua volta è «creatore di mondi». Le campagne di alfabetizzazione e scolarizzazione di quasi tutte le popolazioni europee non hanno quindi dato il risultato tanto atteso dagli anarchici del secolo scorso: piuttosto che menti libere ed emancipate, con idee proprie e dotate di facoltà di ragionamento e d’immaginazione, ciò che è venuto fuori dalle scuole e dalle loro caserme sono stati generalmente esseri obbedienti e indottrinati.
Se ciò non ha impedito l’esplosione di grandi sollevamenti contro l'esistente — la voce del ventre, della miseria e dell'oppressione ha le proprie ragioni — la mancanza di spiriti liberi e di individualità ha tuttavia costituito un limite enorme nel momento dell’arrivo di nuovi poteri: l’adesione popolare ai fascismi, l'accettazione dello spossessamento dei soviet da parte dei bolscevichi o della partecipazione della CNT al governo per trasformare la rivoluzione in guerra, non si spiegano solo con i rapporti di forza o con basse considerazioni tattiche. Di fronte alle logiche del quantitativo e dell'efficienza, la libertà di spirito individuale è ciò che consente sia di mantenere una visione critica, anche su ciò che ci è vicino al di là di ogni ideologia, e sia di aprire le porte verso altri mondi, verso altre possibilità diverse da quelle dettate dai bisogni materiali, tecnici o militari. Una piccola qualità indispensabile per approfondire qui e ora l'agire contro questo mondo, così come per evitare i tranelli ​​della facilità e della riproduzione del potere, una volta messo con le spalle al muro dai grandi sconvolgimenti sociali.
E se questo problema era già presente nel secolo scorso, cosa possiamo aspettarci oggi, nel mondo attuale, in cui la voce e l'immaginario del potere non sono più dotati solo di scuole, ma anche di televisori in ogni casa, di telefoni intelligenti in ogni tasca, di un incessante bombardamento di flussi di «fatti» e «informazioni»? Di incontrare spiriti liberi ed emancipati?
Il fatto che la capacità di leggere e scrivere non dica in fondo granché, è dimostrato da ciò che ormai è definito «analfabetismo funzionale», ovvero la capacità di leggere e scrivere accompagnata da una incapacità di comprenderne il significato. Se vogliamo per un istante dimenticare il nostro orrore delle statistiche — per quanto sembrino confermare il nostro vissuto quotidiano —, questo fenomeno starebbe sommergendo il mondo assumendo proporzioni di pandemia. In Francia, oltre il 60% degli adulti ne sarebbe interessato, mentre in Italia e in Spagna i tassi sfiorerebbero l'80%. Stupore, perché ciò vorrebbe dire che meno di una persona su due sarebbe ancora in grado non di leggere, ma di cogliere il significato di un discorso, di un'analisi, di un'idea. È davvero così? Difficile da dire. Ma quando constatiamo quotidianamente che le idee anarchiche hanno, ancor più che nel passato, pochi immaginari collettivi a cui ricorrere per facilitarne la comprensione, la «perdita del linguaggio», la perdita del «linguaggio della ribellione», diventano innegabili. Come dialogare, scambiare, discutere, approfondire, nutrire la mente, esacerbare l’immaginazione quando la persona che ci sta davanti non coglie il significato generale di ciò che diciamo, ma ne afferra al massimo un dettaglio particolare (il che, detto per inciso, è una sindrome che si manifesta sempre più spesso nelle assemblee anti-autoritarie)? Quando non esiste un mondo interiore a cui collegare ciò di cui vogliamo parlare? Quando il linguaggio è a volte privo di vocabolario, o quando questo diventa essenzialmente funzionale? Quando in aggiunta a tutto ciò, in materia di idee anche vaghe e generali, si mescolano i grandi trafficanti di senso come i predicatori religiosi, i confusionisti youtuber, o gli abbreviatori di tale o tal’altra applicazione (del tipo snapchat o whatsapp, per essere chiari)? Quando il luogo del detto e della parola viene respinto ad esclusivo beneficio dell'immagine?
Quando un fenomeno assume una tale portata, la nostra mente scettica non può accontentarsi di liquidarlo nel lungo elenco della stupidità umana. È la differenza tra una rissa fra due persone che si picchiano per una ragione che può sfuggirci, e milioni di persone che si uccidono a vicenda durante una guerra. La prima situazione può provocare un'alzata di spalle, è un incidente che capita sul cammino della vita, né più né meno. La seconda situazione ci incita necessariamente a voler sondare le ragioni di quella guerra, gli interessi, i meccanismi che sono in gioco. Allora, in un mondo in cui prevale il valore dell’«informazione», come è possibile che l'oscurantismo nella sua versione «analfabetismo funzionale» sembra essere diventato la nuova norma? Così come l'introduzione delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione è comparsa negli anni 80, ed è stata effettivamente pensata come un superamento dell'antagonismo di classe derivante da un certo modello di capitalismo industriale (le grandi fabbriche, le grandi concentrazioni di proletari che vivono in condizioni simili, facilitando la possibilità dell’emergere di comunità di lotta che si oppongono alla classe ben circoscritta dei padroni), ed era quindi un progetto del dominio, la distruzione del linguaggio diverso da quello funzionale allo Stato e al capitale a nostro avviso deriva anch’esso da un progetto. Se è impossibile prevenire — cioè impedire che si manifestino — le febbri di rabbia contro il vuoto assoluto di questo mondo o contro la sua sanguinosa ferocia, rimane di certo possibile prevenire l’emergere, la diffusione, la contaminazione di idee rivoluzionarie ed emancipatrici.
In passato, gli anarchici venivano inviati alla Guyana solo per aver distribuito un volantino (grazie alle leggi scellerate). I giornali venivano sequestrati, i loro redattori o amministratori gettati in prigione. Lo Stato imperversava censurando, ostacolando la diffusione, rinchiudendo i propagatori e gli agitatori dell'idea. Oggi, non solo può continuare a far ciò in base ai suoi bisogni (anche in Europa; è una costante della repressione prendere di mira coloro che animano locali, pubblicazioni, iniziative), ma dispone inoltre anche di strumenti formidabili per tagliare, dall'altra parte, la potenziale ricezione del messaggio. Distruggendo la capacità umana di comprendere il significato, il senso di un'espressione, il dominio mina anche la potenzialità che la sua rabbia, la sua rivolta si faccia idea, visione, sogno. Creatore di mondi, il linguaggio — orale o scritto — è uno dei veicoli, ci piaccia o no, attraverso cui passa «l’elevazione individuale della mente». E per distruggere il dominio, non abbiamo bisogno solo della dinamite e della rivolta, ma anche di questa «elevazione».
Per tornare al nostro esempio iniziale, è sempre meno certo che la nostra agitazione scritta possa ancora venire compresa, in ogni caso non da sola (e ancor meno quando idea e azione non si alimentano più come vasi comunicanti). Dobbiamo allora rinunciarvi, dobbiamo rassegnarci al progetto del dominio di abbrutimento dello spirito umano? Sicuro, potremmo farlo. Ma finché ci siamo, andiamo fino in fondo. Basta libri (ad ogni modo ce ne sono già tanti, bastano al pugno di anarchici che tentano ancora di appropriarsi del loro contenuto), basta riviste e bollettini (a che serve la teoria?), basta occasioni per scambiare e dibattere (solo gli sbirri se ne interessano), limitiamoci ai fatti e al concreto. E il clamore della nostra agitazione si muterà in sussurri, ed i sussurri in silenzio, e il silenzio alla fine concluderà l'idea. Storia finita. È una china fatale.
Oppure, preferendo l’esagitato che cerca tenacemente di abbattere i mulini a vento al piccolo ragioniere che ci vede poca efficacia e soprattutto solo illusioni, non possiamo non tener conto della progressiva distruzione del linguaggio. Se rifiutiamo le soluzioni, sempre più sostenute persino da alcuni anarchici (i militanti di sinistra non avevano esitato un secondo), che consistono grosso modo nell'adattarsi al «livello» di questo mondo — trasformando l'idea in immagine, riducendo l'analisi ad alcuni slogan premasticati, ripetendo banalità pensando di usare un linguaggio «chiaro e conciso» — quale avvenire è riservato all'agitazione anarchica?
Nel rileggere le pubblicazioni del passato, vi troviamo non solo l’amore per l'idea e un linguaggio che è per l’appunto «creatore di un mondo», ma il più delle volte anche un linguaggio «chiaro e conciso» che non ha il gusto amaro della banalità. La confusione era ovviamente diffusa anche tra gli anarchici, ma si cercava instancabilmente di superarla piuttosto che di mantenerla. Ci si dirà che ciò corrispondeva a un mondo che oggi non c’è più, un mondo in cui si lottava accanitamente, dove il nostro sangue scorreva spesso, così come quello dei nostri nemici, dove degli immaginari collettivi accompagnavano gli accessi di febbre. Questo è vero, e non si può resuscitare un passato che in ogni caso non può ritornare.
Ma perché ciò dovrebbe impedire alla nostra agitazione di continuare ad accarezzare gli stessi slanci di vita: combattere i luoghi comuni e i pregiudizi del tempo, rafforzare le capacità di ragionamento e la sensibilità degli individui, identificare il nemico e abbozzare dei suggerimenti su come colpirlo, infrangere le porte del realismo per incitare ad avventurarsi nelle vaste pianure, negli oceani tempestosi e sulle maestose montagne dell'idea, dell'utopia? Non foss’altro perché rinunciarvi non farebbe che portare acqua al mulino del progetto di abbrutimento del dominio.

Un camion di una catena di supermercati fermo a pochi centimetri dal baratro — la voragine provocata dal crollo del ponte Morandi di Genova — col motore ancora acceso e i tergicristalli in funzione. Tutt'attorno, il panico, le urla, la morte, la desolazione.
Non è solo l’immagine simbolo della tragedia appena avvenuta nel capoluogo ligure, in un certo senso è l’immagine simbolo di questa civiltà. Una civiltà fondata sul denaro e sulla sua circolazione. Tutt'attorno, il panico, le urla, la morte, la desolazione.
Tutto è collegato. Esseri umani che devono correre su e giù per procurarsi quel denaro necessario a procurarsi merci che devono essere trasportate su e giù. Esseri umani che non sono più nulla oltre un nome, ogni grandezza d’animo è bandita in loro e vengono sollecitati soltanto a possedere carte di credito e ad acquistare beni di consumo. Dall’altra parte, merci che non valgono nulla oltre un prezzo, ogni qualità è bandita in esse e vengono prodotte soltanto per ricavare un profitto e soddisfare bisogni spesso indotti.
Tutto è collegato. Questi esseri umani scadenti, queste merci scadenti, percorrono strade di cemento su macchine d'acciaio sempre più veloci. Strade che, per arrivare dappertutto, devono essere costruite dappertutto, devastando la natura dappertutto. Macchine la cui costruzione e il funzionamento non solo provocano un inquinamento letale con innumerevoli vittime, ma la cui alimentazione richiede quel petrolio che è da sempre sinonimo di guerre, massacri, esodi. C'è forse da stupirsi se spesso anche queste strade, anche queste macchine, si rivelano scadenti?
Tutto è collegato. Quando i conti correnti sulle grandi infrastrutture finiscono davanti a un baratro, c'è sempre qualcuno che vorrebbe macchine ancora più potenti, strade ancora più numerose. Lo stesso, ma di più, sempre di più. E c'è sempre qualcuno che vorrebbe macchine un po' meno grosse, strade un po' meno trascurate. Lo stesso, ma un po' meno, sempre un po' meno. Che il baratro vada sorvolato o aggirato, in fondo è lo stesso – purché l'economia continui a girare, purché il denaro continui a circolare.
Ma se tutto è collegato, se su quel ponte di Genova è l'intera civiltà ad essere rimasta bloccata col motore acceso, allora non c'è affatto bisogno dello Stesso – c'è bisogno di Tutt'Altro. Ecco perché i titani del Progresso ci sono estranei e nemici quanto i pigmei della Decrescita. Non è di certo la loro amata politica ad essere in grado di metter fine al potere del Denaro, alla ragion di Stato, al culto del Lavoro – bensì una totale diserzione dalle istituzioni accompagnata da una completa disfatta industriale. Premessa minima per reinventare la vita. Non è una fatalità da attendere in dono con l'ultima definitiva catastrofe, solo evento reputato capace di risvegliare una coscienza assopita dallo smartphone. È una possibilità da vivere adesso, da strappare alla rassegnazione e da giocare nella rivolta. Con le idee e con i fatti.
[17/8/18]
Tratto da: Finimondo