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Nella notte fra il 31 maggio ed il 1 giugno, sulle colline di Marsanne (dipartimento della Drôme, Francia), due pale eoliche vengono date alle fiamme da alcuni refrattari all’ordine presente: questo era solo l’ultimo di una serie di attacchi all’energia avvenuti nell’arco di poche settimane, provocando ingenti danni.
Perché colpire l’eolico e non, ad esempio, il vituperato nucleare? Perché fare un attacco alla cosiddetta sostenibilità, tanto cara a verdi, democratici e ambientalisti?

Questa azione esprime un rigetto radicale del sistema energetico in toto, andando a colpire uno dei nodi fondamentali per il progresso: le cosiddette energie rinnovabili. Al fabbisogno energetico della megamacchina, cioè produzione, leggi e rapporti di potere che la sostengono, si produce una razionalizzazione che è fondamento dell'evolversi di questo esistente. L’insostenibilità delle vecchie forme di produzione di energia non sono solo una minaccia ad ogni forma di vita, ma anche all’aumento di produttività energetica fondamentale al sistema di dominio per sopravvivere. Perché un ambiente inquinato, sottoposto ad un continuo sfruttamento, finirà per risultare sempre meno proficuo e nel tempo richiederà un numero maggiore di mezzi per diversamente configurare ciò che ha lo stesso fine.

Per questo è necessario rivolgersi ad altre fonti, che hanno inoltre la potenzialità di essere sviluppate in modo decentrato e diffuso, così che ogni nodo della rete energetica risulti più indipendente.

Perché possa esistere il nucleare o le miniere di carbone è necessario uno sviluppo di queste nuove forme di energia che andranno ad alimentare le sempre più sofisticate macchine necessarie all’ottimizzazione delle centrali.

Il mito della sostenibilità è un grazioso prato verde che ricopre una discarica di scorie radioattive. Necessario così che la passeggiata serale del bravo cittadino non venga disturbata dalla vista della merda prodotta dal mondo in cui sopravvive. Se si vuole scavare fino in fondo per eliminare tutto ciò che c’è di nocivo in questo mondo, è anche necessario calpestare e deturpare quell’odioso prato verde e regolare che piace molto ai sostenitori di una normalità regolamentata, dei gendarmi della decrescita felice, dalla sostenibilità solo apparente.

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È come se l'umanità si fosse divisa fra quelli che credono nell'onnipotenza umana - ritenendo che tutto sia possibile purché si sappia a tale scopo come organizzare le masse - e quelli per cui l'impotenza è diventata la maggior esperienza della loro vita.
Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo

Macchina da guerra

Il 25 settembre, la macchina dello Stato e i suoi putridi meccanismi, in questo caso la Corte di Cassazione, hanno tentato di posare una pietra tombale alla prima tranche giudiziaria riguardante la rivolta di Cremona del 24 gennaio 2015.
In quel gioioso e rabbioso pomeriggio del 24 gennaio, secondo i marci togati, il senso e l’incolumità di tutti i cremonesi sono stati messi in pericolo; tradotto nel codice penale articolo 419, devastazione e saccheggio, 3 anni e 8 mesi di reclusione e risarcimento al Comune di Cremona di 200.000 euro per tre imputati, più la conferma di 2 anni per un altro imputato per resistenza aggravata.
Si sono messe in pericolo l'indifferenza e l'insignificanza generalizzata?
Il dominio si difende da chi lo attacca senza mediazioni e questo non può entrare nella formula del vittimismo da vendere per consenso, ma deve essere una questione ben cosciente per chi si ribella.

Società imperante e servi ridenti

In una società e in un periodo nel quale aggressioni fasciste e razziste dilagano indisturbate e usate come forza d'urto dal potere per alleggerire l'oppressione latente sugli individui, lo Stato e lo sceriffo cremonese alias sindaco Gianluca Galimberti esultano per la sentenza. Essi si vendicano contro alcuni che non rimasero impotenti alla vista della testa rotta di Emilio.
Reprimere alcuni, come monito per le possibili rivolte a venire.
Fascisti, Stato e democratici tutti contenti. Ieri come oggi, chi ha aspirazioni di potere viaggia in linea sui suoni da rutti della repressione.

Pensieri solidali

La giornata di Cremona, come quelle splendide di Genova del 2001 (dove fu ucciso Carlo e il suo ricordo rimane vive in tutti i cuori sediziosi), entra, purtroppo, nella storia come atto punito dal reato di devastazione e saccheggio. Il nostro pensiero, quindi, va a chi dovrà affrontare il secondo grado del processo per il 15 ottobre del 2011 a Roma, agli imputati della seconda tranche per i fatti del 24 gennaio e ai 147 accusati, di cui alcuni accusati per devastazione e saccheggio, per i fatti del Brennero del maggio di due anni fa.
Altri pensieri ribelli e stretta vicinanza anche con gli imputati dell'Operazione Panico e dell'Operazione Scripta Manent, e con chi affronta a testa alta la repressione dello Stato.
Infine, vicini, anche a chi, pur commettendo degli errori iniziali dettati soprattutto dalla tortura della repressione ma non solo, ha avuto la forza di riconoscerli e portare avanti un discorso di solidarietà per dare e ridare dignità a chi si ribella all'esistente.

Distanze

Il 24 gennaio è stato un attacco a questo mondo marcio. All'impotenza della sopravvivenza, stando zitti o sfogandosi su facebook, alcuni hanno deciso di rendere palese il detto antifascismo è anticapitalismo.
Lontani da chi si è dissociato da quella giornata e da chi ha infamato chi si è ribellato, vendendo una persona alla polizia come l'ormai noto Aioub Babassi, pensiamo che la miglior difesa sia l'attacco a ciò che ci devasta lentamente e ci saccheggia ogni giorno.

Una musica altra

Che le schegge di rabbia e di rivolta intraviste in quel 24 gennaio si reinventino, germoglino e sboccino abitualmente contro chi, ogni giorno, devasta e saccheggia le vite e il presente.
Lontani da dissociati, infami e spie! Lunga vita ai ribelli, ovunque voi siate!
Una musica altra, per far la festa al potere e rincominciare a vivere...

anarchiche e anarchici

Qualche settimana fa rimbalzavano su giornali, blog e siti di movimento immagini e notizie che parlavano di grandi manifestazioni con disordini e tafferugli al porto di Catania, quasi che la città si fosse risvegliata in un moto di ribellione contro questo governo fasciopopulista e xenofobo in solidarietà ai migranti sequestrati sulla nave Diciotti. Come ha scritto anche qualche anarchico locale “questa é la Catania che voglio” ma, si sa, non é tutto oro quello che luccica e la merda ben confezionata puo sembrare cioccolata di prima qualità…Dunque, Catania, che si sbandierava in quei giorni (arancino alla mano e megafono in pugno) come città simbolo di accoglienza per storia e tradizione, ha votato un sindaco fascista, tale Salvo Pogliese, e il clima che si respira nei quartieri non parla proprio di solidarietà con i migranti ma piuttosto sembra riecheggiare i tristi e noti slogan salviniani. Gli stessi lavoratori portuali e i pescatori erano contrari se non ostili alle iniziative dei manifestanti.
> La vera Catania, quella Catania che quotidianamente nell’illegalità trova il modo per arrivare a fine giornata, la vera Catania non riesce proprio ad identificarsi nei giovani figli della sinistra bene, che senza problemi si tuffano nella merda dell’acqua del porto, per “salvare” i migranti. Perchè i giovani Catanesi nella merda ci vivono e probabilmente vorrebbero uscirne.
> Catania in quelle notti doveva bruciare!
> Catanesi tutti, bianchi, neri, gialli, migranti, clandestini, puttane, spacciatori, parcheggiatori, compagne e compagni, ribelli, tutti noi insieme avremmo dovuto illuminare quelle notti con 10, 100, 1000 fuochi di rivolta.
> Hanno detto che sono stati gli scontri a far scendere i migranti dalla nave…NO!
> Non sono state le strattonate a liberare i migranti, ma un mero calcolo politico in parte appoggiato dalla chiesa di Roma.
> Quella stessa chiesa che tra i continui scandali di pedofilia e la palese omofobia di Papa Francesco, ha usato la vicenda della Diciotti come un’operazione mediatica per far dimenticare le proprie miserie.
> Qualcuno addirittura ha scritto che dal porto di Catania “parte l’opposizione” a questo governo, la rinascita della sinistra!
> La stessa sinistra che per decenni ha dato il via libera allo sfruttamento selvaggio dei lavoratori, incentivato la repressione, creato prigioni per rinchiudere i migranti, rei solo di aver attraversato una linea immaginaria chiamata confine e stipulato gli accordi con i Libici per la costruzione di lager utilizzati per bloccare gli sbarchi di disperati nelle nostre coste.
> Ma vediamo le anime belle che hanno dato vita alle proteste di quei giorni, le solite facce che si riciclano da qualche decennio in giro per la Sicilia, attivisti di facciata, politicanti, pompieri sempre pronti ad additare alla repressione i compagni che lottano concretamente contro la piovra dello Stato e i suoi tentacoli…
> Tra pacifisti, suore, ambientalisti, sindacati, radical chic, petalosi,autonomi e collettivi vari… si vede perfino spuntare uno striscione con su una A cerchiata proprio a fianco di un gruppetto sventolante il vessillo di “potere al pollo”.
> E ci rode il culo perchè non si trattava dei loschi figuri della fas (federazione anarchica siciliana) che come al solito razzolavano a braccetto con la sinistra riformista e istituzionale.
> Come anarchici questa vicenda che parla di razzismo, frontiere, esclusione e privazione della libertà ci riguarda in prima persona. Ma le carnevalate di piazza, i coretti “siamo tutti antifascisti” e le incursioni pacifiste col salvagente francamente fanno rivoltare lo stomaco, per non parlare dei finti scontri urla-spintoni-articolo sul giornale. Non più il tempo di discutere con chi ci ha sempre traditi e continua ad emarginare la vera ed unica alternativa, la lotta.
> Solo nella lotta, negli scontri veri, nella solidarietà concreta e nell’azione diretta compagn* ribelli, migranti e tutt* gli sfruttat* che oggi manipolati e confusi si fanno guerra tra loro, potranno diventare complici e scagliare la propria rabbia contro il potere.
> Non ci ha insegnato niente la Val di Susa? O, restando nell’isola, il no Muos?
> E’ la solita storia trita e ritrita ma questi minestroni di movimento non fanno altro che abbassare il livello dello scontro ad una rappresentazione, e ridurre le prospettive della lotta a un qualcosa di annacquato che sia accettabile ad un maggior numero di persone possibile.
> E non bisogna per forza essere in migliaia per portare avanti azioni incisive, anche pochi individui con determinazione e ingegno possono fare la differenza, non certo i soldatini pronti sull’attenti alla chiamata dell’emergenza di turno. Non possiamo piu aspettare, non possiamo piu tergiversare sull’orlo del baratro. Il nemico non è solo quel fantoccio di Salvini. Il nemico è ovunque, è sempre presente, infesta in molte forme la nostra esistenza, veramente non c’è che l’imbarazzo della scelta! Come tra l’altro recitava il titolo di un opuscolo pubblicato qualche anno fa…i tempi non sono cambiati, anzi nubi sempre piu nere si addensano all’orizzonte, non è ora di giocare al ribasso ma di alzare il tiro!!!
> Facciamo in modo che i cieli tornino a bruciare…

Manifesto comparso su alcuni muri di Catania e dintorni...

Foresta di Hambach, in Germnia, una cinquantina di chilometri a Ovest di Colonia.

Un mediattivista, Stephen M., è morto all’interno della foresta della occidentale che ormai da una settimana è sotto sgombero, il tutto per consentire l’allargamento di una maximiniera di lignite, curato dalla compagnia energetica RWE.

Da giorni la resistenza di centinaia e centinaia di ambientalisti, tedeschi ma non solo, che nel corso degli anni hanno realizzato decine di case sugli alberi, per impedire il disboscamento di oltre 100 acri di terreno. Contro di loro, migliaia di agenti. In una di queste operazioni poliziesche, nel tardo pomeriggio di ieri, mercoledì 19 settembre, Stephen è caduto a terra da una casa sull’albero, un’altezza di 14 metri. Ferito gravemente, è stato portato subito all’Ospedale di Colonia, dove è morto nella serata.

In una conferenza stampa di emergenza, il portavoce della polizia regionale ha dichiarato che “nessuna operazione era in corso nell’area in cui si è verificato l’incidente”. Secondo le forze dell’ordine, un poliziotto sarebbe arrivato ai piedi dell’albero per dare a Steffenuna scheda di memoria della fotocamera. Il giornalista è caduto mentre cercava di recuperare la scheda.

Completamente diversa la ricostruzione del collettivo ambientalista Hambi Bleibt, che significa “La foresta di Hambach deve sopravvivere”: “La Sek (unità d’élite della polizia tedesca, ndr) – denuncia – stava arrestando un attivista vicino a un ponte sospeso. Stephen stava filmando l’operazione poliziesca quando è caduto a terra”

Dopo la morte del mediattivista, le operazioni di evacuazione della foresta di Hambach sono state momentaneamente sospese. Attiviste e attivisti chiedono che lo stop diventi definitivo, per evitare altre vittime.

Nella notte in decine di città tedesche ci sono stati veglie, cortei e azioni dirette contro le sedi della compagnia RWE. Azioni dirette anche in Francia, dove la polizia, nell’ottobre 2014, uccise un altro attivista ambientalista, Rémi Fraisse, 21enne colpito da una granata esplodente  durante una manifestazione contro la diga di Sivens, nel Sud della

La foresta di Hambach è diventata negli ultimi anni il simbolo della lotta contro il carbone e la deforestazione in Germania, l’equivalente tedesco della Zad francese di Nantes. Occupato da sei anni da attivisti ambientalisti, negli ultimi mesi la compagnia energetica RWE ha accelerato il progetto di sfruttamento del sottosuolo della foresta, ricco di lignite.

Dei 4.100 ettari originariamente coperti di alberi, ora ce ne sono solo 200. In seguito al via libera della giustizia tedesca, RWE intende raderne al suolo la metà a partire dal 1 ° ottobre. La scorsa settimana il governo regionale della Renania settentrionale-Vestfalia ha lanciato l’evacuazione della Zad tedesca, ufficialmente per “alto rischio di incendio”. In realtà, si tratta di un assist ai progetti di sfruttamento della RWE.

Clicca per qui un nostro approfondimento con corrispondenze audio sulla lotta della foresta di Hambach, in Germania.

fonte: Radio Onda d'Urto

La reclusione non appare paradossalmente in nessun luogo, relegata in un altrove invisibile tra la folla dei cuori addomesticati e dei cervelli anestetizzati, eppure è presente dappertutto. Nel senso di asfissia che afferra la gola ad ogni passo falso, come nella lunghissima catena di obblighi e sanzioni che si trascina come una palla al piede. È dovunque vengano imposte le regole del gioco (e le leggi sono sempre regole imposte dall'autorità, cioè da coloro che esercitano il potere nella società) a scapito della libera associazione tra individui e della loro reciprocità.
La reclusione è nella cella famigliare, con il suo aiuto reciproco forzato per affrontare la sopravvivenza e la riproduzione elementare di ruoli sociali indispensabili all'ordine in atto. È nella scuola, quella caserma posta sotto il segno dell'obbedienza e della formazione di schiavi-cittadini adeguati ai bisogni del dominio, che ruba un tempo infinito a tutta la gioventù. È nel lavoro salariato, la migliore delle polizie, che costringe gli esseri umani a vendersi al miglior offerente, scambiando una vita di sottomissione a beneficio di pochi con merci adulterate quanto effimere. È nella religione che sfrutta la sofferenza nel nome di un'autorità superiore, forte di leggi divine piuttosto terrene, che presuppongono come quelle dello Stato che gli individui non siano in grado, peggio, non debbano avere in nessun caso la libertà di decidere da soli della propria vita, né di come rapportarsi con gli altri. È nelle catene tecnologiche e negli schermi di ogni tipo, che ci privano via via non solo di relazioni dirette, ma anche della capacità autonoma di costruire il nostro mondo interiore in cui pensare, sognare, immaginare, poetare, progettare e distruggere tutto ciò. È nell'architettura totalitaria, diretta al controllo e alla sorveglianza, affinché i flussi di merci (umane o meno) fluiscano senza troppi ostacoli. È nelle camicie di forza chimiche, distillate con o senza camice bianco, per farci continuare a sopportare l'oppressione quotidiana senza ribaltare il tavolo troppo bruscamente. È dovunque uomini e donne, per abitudine, rassegnazione, servitù volontaria o interesse, siano disposti a difendere i privilegi dei ricchi e il potere. È nello stesso espropriarci della possibilità di unirci e accordarci liberamente in tutti gli aspetti della vita, tentando nel contempo di privarci della possibilità di affrontare i conflitti senza l'intervento di una polizia e di una giustizia.
E naturalmente, la reclusione è anche nella prigione cinta da mura, sotto forma di ospedale psichiatrico o di campo detentivo per indesiderabili, di centri di reinserimento per minori o di sepolcri per lunghe condanne. È lì, a prolungare vieppiù la sua vendetta lontano dalle sue garitte, con la spada di Damocle della condizionale, del controllo, del braccialetto elettronico, dell'obbligo di lavoro o di assistenza, dei regimi di semi-libertà... raffinatezze per cercare di tenerci in balìa di sbirri, psichiatri, assistenti sociali, padroni e giudici. Come prede da sottomettere per molti anni ancora prima e dopo essere passati da un tribunale o in un carcere.
«Se consideriamo le prigioni come roccaforti ben isolate, rimarranno intoccabili. Ma la prigione è anche l'architetto che la progetta, la società che la costruisce, la legge che la stabilisce, il tribunale che ti ci manda, il poliziotto che ti ci porta, il guardiano che ti sorveglia, il prete che sugge la tua sofferenza, lo psicologo che spia la tua mente. Essa è tutto questo e altro ancora. È l'impresa che sfrutta il lavoro dei detenuti, quella che fornisce il cibo o gli apparati di controllo; è l'insegnante che la giustifica, il riformatore che la vuole più "umana”, il giornalista che ne tace le finalità e le condizioni reali, è il cittadino che la osserva rassicurato o che distoglie lo sguardo»
Agli ammutinati del carcere sociale, maggio 2000
Il 12 settembre, lo Stato francese ha finalmente annunciato lo schema del suo nuovo piano carcerario, dividendo quello inizialmente previsto nel 2016 di 33 nuove prigioni e i 15.000 posti aggiunti, in 7000 posti entro il 2022 e 8000 in seguito. L'elenco dei siti scelti in tutto il paese dovrebbe seguire a breve, con tutte le possibilità offerte da questo tipo di costruzioni agli ammutinati del carcere sociale.
Al di là di questa fase preparatoria, tuttavia, ci sembra che un ulteriore aspetto, lungi dall'essere trascurabile, debba attirare la nostra attenzione. Finché non saremo in grado di percepire la prigione, non come un problema specialistico legato al sostegno dei prigionieri, ma piuttosto come il riflesso della società nel suo insieme di spaventare e reprimere i refrattari (alla proprietà, alle frontiere, all’ordine o al lavoro salariato) in particolare e i ribelli in generale, resteremo incapaci di cogliere le mutazioni indotte da questo progetto carcerario, sia in termini di cambiamenti di mentalità promossi all'interno che di nuovi possibili angoli di attacco dall'esterno. Nello stesso modo in cui la ristrutturazione del mercato del lavoro e la tecnologia hanno trasformato le antiche forme di sfruttamento, aumentando la flessibilità, l'auto-imprenditorialità e l'autocontrollo, questo progetto di gestione carceraria vuole effettivamente accrescere il processo di differenziazione tra la maggior parte dei prigionieri, basata non più unicamente sulla pena o sul reato iniziale, ma su una maggiore partecipazione e collaborazione alla propria detenzione. Un po’ come se tutto il sistema di reclusione, dipendenza, arbitrarietà e tortura non fosse altro che una vasta condizione contrattuale. Una condizione in cui ci viene ordinato di diventare sempre più "responsabili” di una pena da scontare e cogestire con l'amministrazione, essendo paradossalmente frammentata all'interno di una struttura di massa, diventando il secondino degli altri in nome dell'evoluzione del proprio percorso carcerario. Va da sé che un tale processo di totalitarismo democratico, in cui partecipare significa dividere, non potrà che accompagnarsi ad un ulteriore giro di vite contro la minoranza di ribelli che non accetterà di collaborare.
In pratica, si giunge così da un lato di fronte ad uno sviluppo di «moduli di rispetto che si ispirano ai moduli “respecto" diffusi in Spagna, con la responsabilizzazione come filo conduttore: i prigionieri firmano una carta d’impegno basata sul rispetto del personale, dei co-detenuti, dell’igiene, delle regole di vita in collettività. In cambio, possono godere di una certa libertà di movimento [muniti di tesserini] e di un maggiore accesso ad alcune attività». Dall'altro lato, si verifica un'estensione delle cosiddette «strutture stagne» (riservate per il momento ai "terroristi" e ai "radicalizzati"), che sono molto più che reparti di isolamento in seno alla detenzione, ma costituiscono una vera e propria prigione nella prigione (sul modello italiano o tedesco delle carceri speciali degli anni 70 o degli ex-FIES spagnoli), destinati a lungo termine a tutti gli irrecuperabili che rifiutano di sottomettersi o rinnegarsi, a coloro che non passerebbero né ai test di valutazione regolari né alle osservazioni dei servizi di intelligence penitenziaria. Se a questo aggiungiamo, all'altra estremità della catena, la costruzione di due carceri "sperimentali” interamente dedicate al lavoro d’impresa (dalla fabbrica-prigione alla prigione-fabbrica) e l'aumento di misure esterne alternative, del braccialetto elettronico e della semi-libertà (con obblighi di tirocinio, formazione e lavoro) per le innumerevoli condanne di meno di un anno, possiamo iniziare ad avere un quadro completo.
Con il rafforzamento delle condizioni di detenzione sotto forma di percorsi, statuti, interessi, e le più disparate carote per costringere a cogestire la propria condanna con le autorità, non sono solo le proposte di lotta di tipo sindacale a integrare più che mai nel processo di reclusione, ma sono anche i margini tra piena cooperazione e messa alla prova che tendono a ridursi per ciascun individuo, ancor più con la collaborazione di altri detenuti riluttanti a veder crollare tanti sforzi pagati a caro prezzo di rispetto per «le regole di vita in collettività». Su immagine dell'esterno, insomma, dove la figura dell’operaio-massa è stata liquidata da tempo a favore di una competizione generalizzata.
Di fronte a questo progetto di potere, rimane ancora un piccolo elemento che i loro calcoli miserabili non potranno mai controllare completamente, e che può rompere in qualsiasi momento il circolo vizioso della collaborazione: la sete di libertà. Da un lato attraverso la ribellione provocata dalla detenzione, come ci ricorda la rivolta devastante della prigione moderna di Vivonne nel settembre 2016. Partita dall’iniziativa di alcuni individui, è durata più di sei ore, portando alla chiusura dell'ala del carcere per 18 mesi per lavori e provocando 2 milioni di euro di danni. D'altro canto, col fatto che la moltiplicazione di attori esterni di ogni tipo per valutare, far partecipare, far lavorare e controllare i prigionieri, accresce a sua volta le possibilità di intervento dall'esterno, vedi le diverse auto di secondini che sono bruciate nel parcheggio di Fresnes dal mese di maggio.
L'unica riforma accettabile delle carceri è raderle al suolo, insieme alla società autoritaria che le produce e ne ha bisogno.
Avis de tempêtes, n. 9, 15 settembre 2018 (traduzione di finimondo.org)
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