Vai al contenuto

Nelle rivolte che stanno avvenendo ultimamente si scorgono dei piccoli consigli di insubordinazione al dominio, come ad esempio in Cile e ad Hong Kong. Questo testo spiega bene come la mobilità urbana sia un tentacolo attaccabile. Il potere percependo e tremando per simili pretese inorridisce: alla sua destra per conservare l'ordine, ma anche alla sua sinistra, ovvero il lato radical chic infarcito di bandiere multicolori e richieste pretesche a chi comanda. Crearsi la vita da sé è semplicemente stupendo perché, come evoca questo scritto premonitore di qualche anno fa, la libertà può estendersi all'infinito solo attraverso la libertà degli altri.

Tutti vogliamo andare da qualche parte. Non sarebbe esagerato affermare che è nella stessa natura umana andare, non restare fermi, partire alla scoperta. Relativamente incapace di sradicare del tutto questa pulsione, il potere si dedica piuttosto a determinare in anticipo la destinazione delle nostre strade, delimitandone bene i campi che accolgono la scoperta dei territori proibiti. Andare a scoprire il nuovo centro commerciale, gustare un surrogato della natura in un parco pubblico, gettarsi nell'ignoto di un nuovo impiego, fare festa in luoghi predestinati ad evitare ogni gioioso e quindi incontrollabile eccesso... ecco alcune delle destinazioni che ci vengono offerte. Ma la questione non riguarda solo la destinazione. La critica di questo fantomatico mondo messo in scena dal potere e dalla merce s'incaglierebbe se non comprendesse che è il percorso stesso a condizionare la destinazione. Vivendo in un mondo basato sul denaro, le sole destinazioni del nostro errare non possono che essere i templi in cui regna il denaro. Vivendo in un mondo in cui il lavoro salariato determina il ritmo della vita, l'unico fine diventa ovviamente la fabbrica, l'impresa, il laboratorio, il supermercato. Se ci caliamo dall'ambito della critica alla logica del potere e della sottomissione per immergerci nel concreto, in relazione alla questione dei percorsi e delle destinazioni ci scontreremo quasi direttamente con l'esistenza dei trasporti pubblici, che sembrano essere diventati uno degli obiettivi preferiti dagli arrabbiati, evidentemente ciascuno con le proprie ragioni e collere, più o meno condivisibili. Potremmo limitarci ad una critica superficiale dei trasporti pubblici, dimenticando che costituiscono in effetti una delle arterie più importanti della città. Potremmo limitarci a denunciare i prezzi troppo elevati per un biglietto o un abbonamento, l'aumento dei controlli, l'installazione di tornelli che trasformano l'ingresso alla metropolitana in un esercizio di ginnastica, o ancora l'eccesso di videosorveglianza, di agenti preposti alla prevenzione... E tutto ciò, assolutamente necessario e utile, rischierebbe nel contempo di condurre, noi, nemici del potere, sul terreno scivoloso della rivendicazione di un qualsiasi «diritto alla mobilità», di «trasporti pubblici gratis», o magari di una «riduzione della repressione dei "portoghesi"». Sono terreni scivolosi perché rischiano di omettere la questione fondamentale: perché ci sono i trasporti pubblici, a cosa servono? La gran maggioranza degli utenti dei trasporti pubblici li utilizzano per spostarsi da casa verso il lavoro, verso istituzioni, verso appuntamenti con burocrati, verso luoghi di consumo come il supermercato, lo stadio o la discoteca. Ciò fornisce una leggera spiegazione per comprendere l'importanza che il potere attribuisce ad una rete di trasporti pubblici che funzioni decentemente. Lo spostamento, la circolazione di persone è fondamentale per l'economia, per l'esistenza del potere. I trasporti pubblici costituiscono una delle risposte a questa necessità economica di spostarsi, proprio come la sua organizzazione fa il possibile per offrire il percorso allo scopo di determinare la destinazione. E questo spostamento deve ovviamente avvenire nella maniera più efficace (che non equivale alla più piacevole) e più sicura (che non equivale alla più affascinante). La mobilità totale e quotidiana della popolazione necessita di adeguate infrastrutture. L'importanza di queste infrastrutture per l'ordine sociale emerge al contrario allorquando queste vengono paralizzate (poco importa la causa): ritardi, caos, disordine, rottura della routine. Si potrebbe definire un terreno fertile per la libertà, ben altro rispetto alla riproduzione quotidiana dei ruoli, del potere, dell'economia. E fin qui ci siamo limitati agli aspetti concernenti la logica della mobilità economica dietro i trasporti di massa. Ma i trasporti pubblici configurano profondamente non solo lo spazio fisico (con tunnel, cavi elettrici, segnaletica, binari, rumore) ma forse ancor più lo spazio mentale: la città diventa la somma delle fermate di tram e bus, il territorio si vede delimitato dalle fermate di servizio, tutto il resto non è che passaggio, per lo più non a caso sottoterra. La rete dei trasporti pubblici, compresa la militarizzazione che essi determinano, può essere analizzata come una autentica tela che copre il tessuto sociale, che contribuisce a determinarne i rapporti, che lo contiene e lo rinchiude. Nella prigione a cielo aperto che il  potere è sul punto di costruire, i trasporti pubblici costituiscono i fili spinati e le torrette di guardia che impediscono ogni evasione. Come in qualsiasi prigione o campo, i reclusi vengono registrati e schedati. La gigantesca schedatura, realizzata attraverso carte elettroniche personalizzate, movimenti di tutti gli utenti paganti (e ancora oltre, data la videosorveglianza), non è in effetti che uno degli aspetti della prigione sociale. Allo stesso tempo, i trasporti pubblici non sono una fortezza inespugnabile. Esattamente perché sono una rete che si estende dappertutto, non saranno mai al riparo da atti vandalici. La sua onnipresenza costituisce al tempo stesso la sua vulnerabilità. Forare i pneumatici in un deposito di bus, tranciare cavi lungo le rotaie, distruggere segnali che ordinano la circolazione, erigere ostacoli sulle rotaie... le possibilità per attacchi semplici e riproducibili sono infinite e soprattutto impossibili da prevenire ed evitare per i direttori della prigione sociale. Ogni perturbazione, di qualsiasi ampiezza, ha effetti immediati sulla routine quotidiana, che chiaramente è quella del lavoro, dell'economia, del potere e del controllo. Lottare per mantenere i trasporti pubblici accessibili a tutti diventa, in quest'ottica, rivendicare una prigione aperta — esattamente ciò che il potere sta costruendo. Del resto non ci sembra pertinente prevedere se, nel mondo dei nostri sogni, in un mondo in cui il denaro sarà detronizzato e il potere distrutto, esisteranno ancora questi trasporti, considerando che la loro logica attuale è interamente ed esclusivamente impregnata dall'economia che vogliamo distruggere e dal controllo sociale che vogliamo sradicare. Si tratta oggi di intendersi su cosa siano realmente i trasporti pubblici: arterie del capitalismo, barriere che escludono tutto ciò che esce dalla routine del lavoro e del potere, fili spinati della prigione a cielo aperto in costruzione. E, così come l'evasione di un detenuto non significa di per sé la distruzione della prigione (e in una certa misura nemmeno la libertà, libertà che, come siamo soliti dire, può estendersi all'infinito solo attraverso la libertà degli altri), la questione torna ad essere quella di attaccare i trasporti pubblici allo scopo di danneggiarli e distruggerli. Paralizzare la circolazione orchestrata e condizionata significa null'altro che battersi per la libertà di tutti.  

[Hors Service, n. 24, 7/1/2012]

L’anarchico non guarda al successo, alla vittoria, alla competizione. Lotta, perché è giusto. E in qualsiasi lotta la perdita fa parte della vita. Non cambia idea perché perde e tanto meno rinuncia alla lotta successiva. Il Sistema si autoalimenta per il popolo che non lotta, non perché è invincibile. Il lavoro dell’anarchico è instillare nel popolo la rivolta, non a segmenti ma continua. Come un’onda che si ritira e poi torna. Mi chiedete se vinceremo? Mi fate la domanda sbagliata. Chiedetemi se lotteremo e vi risponderò di sì.

Luigi Galleani

Oggi abbiamo deciso di dire la nostra sull’operazione “Renata”. In altri scritti è stata analizzata l’inchiesta, sia negli aspetti repressivi generali dello Stato, sia riguardo gli strumenti tecnologici, inquisitoriali e giuridici usati per colpire chi ancora osi battersi per qualcosa di diverso e so! ancora sulle ali della libertà.

Abbiamo deciso di non rivolgerci alla Corte che ci giudicherà né alla solerzia dei nostri repressori. Non è l’aula di un tribunale il luogo in cui oggi scegliamo di parlare.

Vogliamo parlare in quei luoghi in cui si lotta, dove c’è ancora spirito critico, dovunque ci siano donne e uomini coscienti che tante cose vanno cambiate ora, che questo stato di cose va rivoluzionato.

Quindi parleremo dei fatti di cui siamo imputati o che sono inseriti nell’inchiesta.

Queste azioni – notturne o diurne, individuali o collettive – si inseriscono in un conflitto che va ben al di là dei fatti specifici o del territorio in cui sono collocate. Esse sono frutto di uno scontro più ampio, quello tra gli sfruttati, gli sfruttatori e chi li difende.

Di queste azioni condividiamo lo spirito, l’etica, il metodo, gli obiettivi, indipendentemente da chi le abbia compiute. Esse parlano da sole, sono comprensibile ai più, indicano una strada – quella della liberazione. Puntano il dito contro chi vive di sfruttamento e guerra, di odio e violenza, auspicano qualcosa di più, qualcosa che metta fine alle peggiori atrocità e barbarie, ma soprattutto mirano a distruggere il muro della rassegnazione, in tempi così poveri di solidarietà umana, di ribellione, di pensiero critico.

Chi in questi anni ha detto e tutt’ora dice che simili azioni non servono a nulla, che il gioco non vale la candela, che nulla cambierà, che l’essere umano ha perso in modo definitivo il senno riducendo la vita a una costante guerra fratricida, ha smesso di sognare, ha smesso di interrogarsi sui responsabili delle ingiustizie e sulle cause che hanno portato la società ad un livello morale, ambientale e materiale a dir poco inquietante. Tra le svariate cose raccontate nei faldoni, emerge che in questi anni siamo scesi molte volte in strada con caschi e bastoni contro partiti e movimenti come Lega, Casapound e Sentinelle in piedi. Abbiamo criticato in decine di volantini, manifesti e iniziative di vario tipo le loro responsabilità storiche e le loro politiche reazionarie: gruppi politici e religiosi che promuovono l’odio fra gli sfruttati, che difendono la classe padronale, che alimentano una società basata sul privilegio, sul razzismo, sul patriarcato e molto altro.

In questi tempi aridi di lotte e di scontro sociale, ci si scandalizza per le pratiche di autodifesa in strada, dimenticando, assieme al passato in cui ciò era patrimonio comune, il buon senso minimo di distinguere la violenza reazionaria da quella proletaria. Non solo ci si dimentica di quello che polizia, carabinieri, Chiesa e fascisti hanno fatto in questo Paese, ma delle violenze dell’altro ieri: di Genova 2001, di Firenze, di Macerata e tante altre ancora. Visto che il loro ruolo e il loro compito sono sempre gli stessi, abbiamo sempre ritenuto importante che la loro azione non trovasse né il silenzio né la tranquillità nel territorio in cui viviamo. E a proposito della rivolta di Genova 2001, e della vendetta di Stato che continua ad abbattersi sui compagni per quelle giornate, è sconcertante leggere con quale chiarezza un’intelligenza collettiva riuscì all’epoca a prefigurare una serie di scenari: devastazione globalizzata, neoliberismo sfrenato, riscaldamento climatico, politiche anti-immigrati che producono nuovi schiavi… un ordine sociale giunto ormai all’implosione.

Un altro silenzio che non accettiamo è quello che circonda le morti nelle carceri e nelle caserme. Da quando è stato aperto il carcere di Spini a Trento, molti detenuti si sono suicidati, altri ci hanno provato, altri an- cora sono morti per le negligenze mediche o per lo zelo repressivo dei magistrati di sorveglianza. Abbiamo conosciuto il dolore e la rabbia dei famigliari, degli amici, di chi ha perso il proprio figlio nelle mani dello Stato, ma abbiamo purtroppo conosciuto anche l’indifferenza e il silenzio dei più, malgrado simili tragedie siano più vicine di quanto si creda.

Uomini e donne che ricoprono coscientemente il ruolo di aguzzini decidono di contribuire a difendere una società fondata sulla paura, sul ricatto, sulla vendetta, sulla violenza e sul pregiudizio. E noi saremo sempre pronti a denunciarne le responsabilità, a ostacolarne il lavoro, a spingere altri a prendere posizione contro questi assassini in divisa, con il doppiopetto da burocrati o in camice bianco.

Chi ha cercato di incendiare le auto della polizia locale ha dato un segnale in tal senso. I poliziotti locali non sono solo quelli che indicano le strade alla bisogna, ma anche quelli che partecipano agli sfratti delle persone che non riescono a pagare l’obolo al padrone di casa, quelli che sparano alle spalle di un ragazzino, come è successo a Trento qualche anno fa, quelli che picchiano delle persone di colore, come è successo a Firenze, che applicano i Daspo, che partecipano alle retate contro chi è senza documenti e compiono tante altre nefandezze.

Le espulsioni, i campi di concentramento – si chiamino CPR o Hotspot –, i morti in mezzo al mare, in montagna o lungo i binari di una ferrovia sono lo scenario quotidiano di questo mondo a cui vorrebbero farci abituare. Per questo sono stati bloccati i treni ad Alta Velocità in solidarietà con chi è congelato su un sentiero di montagna o chi è stato risucchiato da un treno merci a qualche chilometro da casa nostra. Sempre per questo, il 7 maggio 2016, al Brennero ci siamo scontrati con la polizia e abbiamo bloccato ferrovia e autostrada. «Se non passano gli esseri umani, non passano nemmeno le merci»: questo era lo spirito di quella difficile giornata.

Di fronte al ghigno feroce del razzismo di Stato, dovremmo scandalizzarci perché qualcuno, nell’ottobre del 2018, ha attaccato la sede della Lega di Ala?

Nel novembre 2016, a Trento e a Rovereto, furono incendiate diverse auto di Poste Italiane. Nelle scritte lasciate sui luoghi delle azioni e riportate dai giornali, si faceva riferimento alle responsabilità di P.I che, tramite la propria controllata Mistral Air, si arricchiva deportando nei Paesi di origine donne e uomini privi dei documenti in regola per vivere in Italia. Senza contare che P.I. investe una parte dei propri introiti nei fruttuosi affari dell’industria degli armamenti. Ci chiediamo quale differenza ci sia tra i fatti accaduti negli anni Trenta e Quaranta e quelli di oggi? Perché si ricordano le vittime di allora con gli ipocriti mea culpa e nulla sembra scuotere oggi i cuori dei più?

Non passa giorno senza che su giornali, siti, televisioni si legga o si veda questa o quella guerra. Guerre per procura, guerre per interessi geopolitici, guerre per il territorio, di territorio, per il potere. Guerre che provocano i grandi spostamenti di uomini e donne. A promuovere queste guerre non sono solo gruppi industriali come la FIAT (con l’Iveco) o gli AD di Leonardo Finmeccanica e Fincantieri. Al loro servizio c’è una schiera di tecnici e scienziati, un esercito in camice bianco, con i guanti e le mani sterilizzate, che lavora nei laboratori delle nostre città, nelle università a due passi da noi. In nome della scienza e del progresso, si giustifica qualsiasi “scoperta”, senza che da quei luoghi si sollevi un qualche interrogativo di fondo: «A cosa porta tutto ciò?», «che scenari nuovi apre?», «a chi serve davvero?». Ecco allora che nel democratico e pacifico Trentino, l’Università collabora con l’esercito italiano, aiuta le istituzioni israeliane a meglio pianificare l’oppressione del popolo palestinese, fa entrare nei propri Consigli e nelle proprie aule le principali aziende di armi. Di fronte a questa palese connivenza, ci si sorprende che ignoti abbiano incendiato, nell’aprile del 2017, il laboratorio Cryptolab all’interno della Facoltà di Matematica e Fisica di Povo? Quando sugli stessi siti universitari si illustra la collaborazione con l’esercito?

E che dire dell’incendio di mezzi militari, la notte del 27 maggio 2018, all’interno dell’area addestrativa del poligono di Roverè della Luna? Oltre a ruspe e camion, sono stati dati alle fiamme tre carri armati Leopard. Di produzione tedesca, sono gli stessi carri che Erdogan ha utilizzato e utilizza per schiacciare la resistenza curda. Come dicevano dei manifesti antimilitaristi apparsi in Germania anni fa: «Un mezzo militare che brucia qui = qualcuno che non muore in qualche guerra». Un concetto di una semplicità… disarmante.

Sempre a proposito di antimilitarismo e di internazionalismo, nelle carte dell’inchiesta si parla di sabotaggi ai bancomat dell’Unicredit, banca che, senza contare i suoi investimenti nell’industria bellica, è la principale finanziatrice del regime fascista di Erdogan, che proprio in questi giorni sta mostrando tutta la sua ferocia in Siria e contro il dissenso interno. E poi si menzionano i sabotaggi ferroviari in occasione dell’Adunata degli Alpini. Per chi non ha eroi da onorare, ma carneficine da maledire, quei gesti di ostilità contro la sfilata del nazionalismo e del maschilismo gallonato hanno riattivato un minimo di memoria storica: le diserzioni, gli ammutinamenti, le sommosse per il pane, gli scioperi nelle fabbriche, gli spari contro gli ufficiali particolarmente odiati dalla truppa, le rivolte al grido di “guerra alla guerra!”, il posizionamento intransigente “contro la guerra, contro la pace, per la rivoluzione sociale”, oggi sempre più attuale.

Noi sosteniamo i portuali di Genova, di Le Havre e Marsiglia che si sono opposti al carico-scarico di materiale bellico destinato all’esercito saudita che da anni massacra la popolazione yemenita con bombe fabbricate, fino all’altro giorno, in Italia. Ma non ci accontentiamo. Vorremmo che gli operai disertassero le fabbriche di armi, quelle navali e chimiche; che gli scienziati uscissero dai loro laboratori. Vorremmo le università in sciopero, a partire da quelle di Giurisprudenza, dove si giustificano le cosiddette “missione di pace” (Peace-keeping, lo chiamano), vorremmo che i ferrovieri bloccassero i treni come all’epoca della prima guerra del Golfo.

Tramite le guerre gli industriali si arricchiscono sfruttando la mano d’opera operaia e comprandone la coscienza per un tozzo di pane. E ancora a meno se la comprano le agenzie interinali, sfruttando vecchie e nuove leggi sul lavoro e mandando la gente a lavorare a progetti devastanti come il TAP in Puglia. Per questo non ci stupisce che qualcuno, a Rovereto, abbia danneggiato un’agenzia Randstadt, ricordando che la guerra di classe non è finita.

Un’altra azione di cui siamo accusati è l’incendio dei ripetitori sul monte Finonchio, sopra Rovereto, nel giugno 2017. Da sempre denunciamo, e non siamo certo i soli, il danno ambientale provocato dalle decine di migliaia di queste torri sparse in tutti i territori, le cui onde causano tumori e disturbi vari agli umani e agli animali (e molto peggio sarà con il 5G). Oltre a ciò, simili tecnologie hanno diminuito le capacità di

concentrazione e di apprendimento, condizionato l’acquisto di merci, creato bisogni indotti, rimbambito i cervelli. Senza contare l’aspetto più importante: il controllo sociale. Ormai le inchieste poliziesche sono basate quasi esclusivamente su intercettazioni video e audio da montare e smontare a piacimento. La re- pressione e il controllo si potenziano con ogni scoperta tecnologica, la quale assicura a sua volta affari alle aziende che collaborano con gli Stati. Questa tendenza non è politica, bensì strutturale, dal momento che l’apparato accresce se stesso e, con il pretesto della sicurezza, giustifica qualsiasi cosa.

Ci viene contestato il fatto di “programmare la rivoluzione” tramite le riviste, gli appelli, gli scritti. Ebbene sì. Non ci abbattiamo di fronte alle avversità di questa epoca. Ogni sussulto di ribellione, ogni sommossa che tenda alla libertà, ogni moto rivoluzionario che riecheggia più o meno vicino a noi è motivo di energie rinnovatrici per la propaganda e per l’azione, al fine di sollecitare la società attorno a noi a un cambiamento radicale. Per questo negli anni abbiamo occupato vari edifici: non solo per avere degli spazi in cui organizzarci e creare dibattito, ma anche per provare a mettere in pratica la vita che vorremmo, con i nostri pregi e difetti. Forse siamo sognatori, romantici, illusi, ma siamo anche determinati, solidali, internazionalisti, concreti.

Se ci sarà da alzare la voce davanti alle porte di un supermercato o ai cancelli di una fabbrica o di un cantiere contro le nefandezze dei padroni e dello Stato, noi ci saremo; se ci sarà da bloccare progetti come il TAV, salendo su una trivella o danneggiandola, ci saremo; saremo là dove si alzerà la voce della rivolta.

Si contesta ad alcuni di noi, infine, di aver fabbricato dei documenti falsi. La falsificazione di documenti è uno strumento di cui tutti i movimenti di lotta, anarchici e non solo, si sono dotati per eludere la repressione statale, e a cui sono ricorsi e ricorrono gli sfruttati e i poveri per viaggiare in cerca di un posto migliore dove vivere. Soprattutto in un mondo in cui, se non hai in tasca il pezzo di carta giusto, muori in mare o in un lager libico, oppure finisci in uno dei tanti campi di concentramento sparsi per la civile e democratica Europa.

Gli inquirenti sostengono che un gruppo di affinità è difficile “da infiltrare e da demoralizzare”. Che chi mira al potere non riesca a capire chi mira alla libertà ci sembra un’ottima cosa.

Non saranno condanne e carcere a farci innalzar bandiera bianca. Continueremo a volere quel cambiamento radicale intravisto durante la Comune di Parigi del 1871, che tanto fece tremare lo Stato e i padroni. Sappiamo che questo cambiamento radicale non avverrà dal nulla, per qualche determinismo della storia. Sarà il frutto della volontà, spinta verso gli scopi più alti della convivenza umana, verso l’anarchia, «un modo di vita individuale e sociale da realizzare per il maggior bene di tutti» (Malatesta).

Concetto tanto semplice quanto lontano dalla situazione in cui ci troviamo.

Ogni azione che oggi va ad indicare i diretti responsabili dello sfruttamento umano e ambientale è utile perché fa capire che l’oppressione è più vicina di quanto crediamo.

Ma starà alla volontà di ciascuno di noi abbattere le paure a cui ci vorrebbero sottoposti e svegliarci dalle comodità materiali con cui uccidono lo spirito, i pensieri, le idee.

Noi non costringiamo nessuno a fare quello che non vuole, ma non permetteremo neanche che a nome nostro o con la nostra collaborazione si continui a distruggere e ammazzare. Non resteremo inermi e impassibili. Non ci faremo né zittire né trascinare nel fango della barbarie.

In questi anni e mesi abbiamo visto decine di compagne e compagni finire in galera, alcuni condannati a lunghe pene. Invitiamo a unire le forze e dare le risposte necessarie a questi attacchi contro il nostro movimento. Agendo si faranno inevitabilmente degli errori. Si tratta di temprare corpi e menti per una rinnovata fiducia nelle idee e nelle pratiche di libertà.

Vogliono che cadiamo nella rassegnazione e nello smarrimento. Hanno già fallito.

Visto che agli inquisitori piace tanto giocare con le parole (degli altri) non meno che con i fatti, “Renata” pare l’ennesimo inciampo lessicale, perché ogni cuore ardente è pronto a “rinascere” per ogni torto subìto.

Trento, 18 ottobre 2019

Stecco, Agnese, Rupert, Sasha, Poza, Nico e Giulio

Condividiamo questo testo scritto da Amma, incarcerato il 20 Settembre 2019, insieme a Patrick e Uzzo, con le accuse di violenza e resistenza a pubblico ufficiale, danneggiamento, imbrattamento per aver partecipato al corteo del 9 Febbraio a Torino in solidarietà allo sgombero dell’Asilo Occupato e con le persone arrestate durante l'”Operazione Scintilla”, ed in opposizione alla gentrificazione e militarizzazione del quartiere Aurora.

Amma ha espresso la volontà di far uscire e circolare tra compagn* a voce, per mail, con la pubblicazione sui siti, informazioni più dettagliate sul periodo di reclusione che sta vivendo nel carcere delle Vallette, sulle condizioni detentive e le violenze sbirresche in queste settimane di carcerazione. Le comunicazioni con Amma sono difficili e le informazioni che riusciamo ad avere frammentarie. Gran parte della corrispondenza gli è stata trattenuta, almeno durante le prime settimane, e i numerosi telegrammi che abbiamo spedito ad oggi non gli sono mai arrivati. Le lettere in uscita sono arrivate in ordine sparso ed oltre due settimane dopo la spedizione. I colloqui con la madre sono stati accordati tre settimane dopo l’arresto, e siamo ancora in attesa della risposta alla domanda di colloqui per un compagno che ha fatto richiesta. La richiesta di domiciliari è stata negata e siamo in attesa delle motivazioni. Le prime notizie che ci sono arrivate non hanno fatto che alimentare la nostra rabbia. L’8 Ottobre c’è stata l’udienza per il riesame per la quale Amma è stato tradotto in tribunale, e nella quale non sono mancati toni accesi e conflitti con i servi dello Stato, GIP e PM in particolare. Al ritorno alle Vallette, le infami guardie si sono accanite su Amma. Il risultato, la perforazione di un timpano per le manate prese dai secondini, botte, provocazioni e minacce. Non ci stupiamo che secondini e sbirri esercitino il loro schifoso potere anche attraverso pestaggi, intimidazioni, minacce psicologiche. Sappiamo anche che questa volta siamo venute a conoscenza dei fatti perché capitati a un compagno, ma queste dinamiche non sono affatto eccezionali.  Fanno parte della quotidianità e del funzionamento fondamentale delle varie strutture detentive e repressive nelle quali lo Stato rinchiude chi ostacola l’esercizio del potere, chi vi si oppone, chi non è ritenuto funzionale al mantenimento dell’ordine. A tali strutture si oppongono le persone arrestate durante l'”Operazione Scintilla”. Era a quest* compagn* impegnat* nelle lotte contro galere, CPR e confini che il corteo del 9 febbraio a Torino, esprimeva la propria rabbia e solidarietà per le strade della città.


La giornata del 8.10.19 è iniziata presto: 7:20 una guardia apre la cella e mi informa che devo prepararmi per presenziare all’udienza di riesame relativa alla misura cautelare che sto scontando in carcere.

Pochi minuti dopo esco dalla cella dove mi hanno rinchiuso con un bicchiere di caffè fumante ed una sigaretta appena accesa, percorro il corridoio della sezione fino ad arrivare alla “rotonda” dove si congiungono i corridoi della sezione che compongono il terzo piano del blocco B.

In rotonda c’è il tavolo delle guardie di turno, alcune fumano, altre mi fissano e basta. Il capoposto si alza e mi intima di buttare la sigaretta dicendo : “oggi non si fuma!”, io faccio una serie di tiri veloci e profondi, ed eseguo l’ordine a denti stretti.

Subito dopo la guardia in questione mi si avvicina e mi ordina di buttare il caffè, io rispondo che non ho ancora fatto nemmeno un sorso al che mi si avvicina ulteriormente, prende il bicchiere dalla mia mano pietrificata (non ho trovato la forza di oppormi) e lo butta con aria arrogante.

Mi viene ordinato di scendere al piano terra e li mi viene fatto aspettare in una stanza (ovviamente chiusa) che piano piano si va riempiendo di detenuti che vanno incontro alla macchina dello stato chiamata TRIBUNALE.

Ci dicono di non portare eventuali accendini e sigarette; io avevo un bic in tasca e scelgo di riportarlo in cella, arrivato in rotonda il capoposto mi impedisce di riportarlo in cella e mi obbliga a buttare anche quello.

Scendo di nuovo. A una certa ci ammanettano con delle manette provviste di un cavo per tirarci (tipo guinzaglio), legano i detenuti uno alle manette dell’altro con il primo che viene tenuto da una guardia e ci tirano fino a sopra il bus dove ci mettono in delle celle senza slegarci le manette.

Così legati ci fanno scendere una volta giunti a destinazione e al ritorno è uguale.

14:50 è stata la prima volta che ero contento di ritornare in cella, mi accendo una siga e mi chiamano in rotonda per ritirare la posta, me la aprono davanti e quando vedo che stanno distruggendo la parte con il mittente gli chiedo come mai. Mi viene risposto che il motivo è che comandano loro, mi viene indicato uno stanzino ed ordinato di recarmi la perché devono perquisirmi (dato che arrivo dal processo).

La situa puzza ma dato che mi stavano imbruttendo ci vado, mi viene intimato di mettermi in mutande.

Una volta spogliato iniziano a prendermi a ceffoni con i guanti neri in 3 uno dopo l’altro con il quarto a guardia della porta, dicono cose tipo: “sei solo un membro,  non hai diritti, qui comandiamo noi, non si fanno domande ecc” a una certa il quarto dice muovetevi se no vi vedono e poi fanno casino.

Escono dalla stanza e mi lasciano lì con le orecchie che fischiano, in mutande con il gusto metallico del sangue in bocca.

Ne arriva un altro che mi guarda, si mette i guanti e mi tira un ceffone dall’alto (quasi saltando per fare una schiacciata a palla contesa) poi mi intima di muovermi a vestirmi ma come mi avvicino ai vestiti mi colpisce di nuovo dicendo che devo fare in fretta.

Viene interrotto da un suo collega che gli dice che non c’è più tempo perché gli altri detenuti stanno  rientrando dall’aria, mi rivesto e torno a prendere la posta in rotonda.

Lì il capoposta inizia a dire: “Se ti entrano in casa i ladri chi chiami?” io ovviamente non rispondo. Continua per un po’ dicendo “dai dilla ‘sta parolina chi chiami eh? Su dillo, dillo, non ti costa niente” (il tutto a 2 cm dalla faccia) a una certa si stufa e dice “dato che non ci vuoi chiamare d’ora in poi non chiamerai più assistenti, né infermiere, neanche per chiedere di fare la doccia” e prosegue “non andrai più all’aria né in doccia, ti laverai nel lavandino etc etc etc e ora in cella muoviti passi lunghi e ben distesi perché qui sei in galera e qui comandiamo noi”.

Io scosso mi reco alla cella e mi butto esausto sul letto.

Dall’orecchio esce pus e sangue, alla sera il mio compagno di cella chiama le guardie e mi fa portare un antidolorifico, la notte non riesco a dormire per il dolore all’orecchio ma ad una certa il sonno ha la meglio.

Al mio risveglio il lenzuolo è una chiazza di sangue dove c’era attaccata la testa, tutto fuoriuscito dall’orecchio.

Sempre grazie al mio concellino che la chiama mi visita l’infermiera e dice che probabilmente ho delle lesioni al timpano destro e sto rischiando di perdere l’udito, ora che sto buttando giù ‘ste righe è il 9 sera sono le 21 e l’orecchio sanguina ancora.

AMMA

CARCERE DELLE VALLETTE

TORINO 9.10.19

P.S. gli schiaffi li hanno motivati per una scritta: “FANCULO I CARABINIERI” che non ho fatto (né cancellato)

A testa alta

AMMA”

Non sempre i poveri sono ragionevoli, e poi, perché dovrebbero esserlo a fronte di un’esistenza di miseria che viene loro riservata giorno dopo giorno dal potere? In qualche caso, basta una goccia d'acqua perché il negativo dispieghi le ali e attacchi quello che ha identificato da tempo come nemico. Ciò non farà certo piacere al braccio sinistro del capitale e alla sua ideologia cittadinista, tuttavia a Santiago del Cile da venerdì 18 ottobre, studenti, liceali, anarchici e altri vandali incontrollati hanno cominciato a distruggere una parte importante del loro alienazione quotidiana: il sacrosanto trasporto pubblico. Hanno capito che nulla di quanto appartiene allo Stato o alle imprese è nostro e merita di essere aggredito dalle fiamme della vendetta contro un esistente di spossessamento e di sfruttamento. E poiché c’è sempre bisogno di una scintilla iniziale, il pretesto è stato dato dal doppio aumento del prezzo della metropolitana della capitale cilena nelle ore di punta. Un aumento inizialmente di venti pesos nel gennaio 2019, poi di trenta pesos il 6 ottobre (da 800 a 830 pesos, ovvero 1,04 euro il biglietto, ben sapendo che il sussidio è inferiore a 300 euro al mese e che non tutti ce l'hanno), mentre il governo evoca l'aumento dei costi energetici e la debolezza del peso. Di fronte alle prime mobilitazioni, il ministro dell'Economia Juan Andrés Fontaine, forte dell'arroganza dei potenti, ha persino dichiarato che agli utenti non restava che alzarsi ancor prima la mattina, per usufruire di tariffe più basse (essendo queste flessibili a seconda della frequenza, un buon esempio di liberalismo)! In un momento in cui alcuni treni locali sono paralizzati in Francia da due giorni dai dipendenti della SNCF che applicano il loro diritto alla pensione per rivendicare... la presenza di controllori su tutti i treni, lo slogan più comune a Santiago da una settimana è «evasión ya» (Frode adesso) o «Evadir = Luchar» (Frodare = Lottare). Dopo le manifestazioni selvagge per tutta la giornata di venerdì 18 ottobre, gli arrabbiati hanno scelto il prolungamento notturno e hanno iniziato a distruggere tutto ciò che era loro ostile: almeno 16 autobus Transantiago sono stati ridotti in cenere, 9 dei quali in piazza Grecia. Là i manifestanti se ne sono appropriati dopo aver fatto scendere autista e passeggeri, e poi li hanno spostati in mezzo alla strada per utilizzarli come barricate in fiamme. Ma non è finita qui, poiché dopo intensi combattimenti per tutto il giorno nella metropolitana, dove nessuno era più disposto a pagare, forzando i passaggi, affrontando all’occorrenza i carabinieri e le guardie, e distruggendo i terminali di pagamento e altri tornelli, barricate sono state erette al calar della notte in Plaza Italia, Los Héroes, Portogallo e in diverse strade di Eje Alameda. Fra gli attacchi mirati, si annoverano l'incendio del monumento ai Carabineros ad Alameda e quello del gigantesco quartier generale della compagnia di gas ed elettricità Enel. Situato proprio nel centro della capitale cilena, all'incrocio tra i viali di Santa Rosa e Alonso, il fuoco è stato appiccato alle scale di emergenza dell'azienda ed è riuscito a propagarsi fino al 12° piano, devastando tutto al proprio passaggio nella torre di uffici. Da notare inoltre l'incendio di una succursale della Banca del Chile nel centro e il saccheggio di un supermercato. La polizia ha effettuato almeno 180 arresti, mentre 57 agenti sono rimasti feriti. Nel frattempo, il presidente della Repubblica Sebastián Piñera è stato sorpreso a far festa in una pizzeria del centro (a Viracura) mentre gli scontri perduravano da ore, il che non ha mancato di far aumentare il livello di tensione, come simbolo del suo disprezzo. Ritornato al suo palazzo, ha decretato poco dopo la mezzanotte lo stato di emergenza militare nelle province di Santiago, Chacabuco e nelle città vicine a Puente Alto e San Bernardo. Il cosiddetto Estado de Emergencia può essere decretato dall'esecutivo senza bisogno di un'approvazione del Congresso per 15 giorni prorogabili, limitando la libertà di movimento e di riunione e autorizzando i militari ad andare nelle strade per ripristinare l'ordine. Tutti gli assembramenti pubblici sono ora vietati: ad esempio, l'Asociación Nacional de Fútbol Profesional (ANFP) ha immediatamente annunciato la sospensione delle partite di calcio di tutte le divisioni, e la potente chiesa cattolica dei suoi pellegrinaggi, anche al famoso Santuario di Teresa de Los Andes. Sono inoltre previsti fino a 10 anni di carcere per chiunque «incita a distruggere, metter fuori servizio, interrompere o paralizzare qualsiasi installazione pubblica o privata di illuminazione, elettricità, acqua potabile, gas e simili, al fine di sospendere, interrompere o distruggere i mezzi o gli elementi di qualsiasi servizio pubblico o di utilità pubblica». In pratica, il generale di divisione Javier Iturriaga del Campo che è a capo della difesa nazionale, responsabile dell’applicazione dello stato di emergenza, ha precisato che le pattuglie militari sorveglieranno i principali siti della capitale. Lunedì è inoltre prevista una sessione straordinaria della Camera dei deputati alla presenza del Ministro degli Interni a Valparaíso, lontano dalla capitale nelle mani dei militari. Come si può vedere, quando si verificano rivolte nelle strade, cosa abbastanza frequente in Cile, e qualora si limitino allo scontro o alla distruzione dell'arredo urbano, questo è ancora concepito come sfogo democratico. Ma allorché i manifestanti iniziano ad attaccare infrastrutture critiche come la metropolitana o il quartier generale di un gigante dell'energia, le cose cambiano improvvisamente. Tutte le 164 stazioni della metropolitana di Santiago sono già state chiuse per l'intero fine settimana e fino a nuovo ordine, per limitare gli spostamenti. E 700 autobus sono stati requisiti dalle autorità per gestire i movimenti. Ultima nota ma non meno importante, subito dopo gli scontri quotidiani e lo stato di emergenza, numerosi gruppi di rivoltosi hanno quindi deciso di non piegarsi e di cercare la fonte del problema per risolverlo radicalmente. Da Plaza de Maipú, sono scesi sotto terra e hanno saccheggiato tutto ciò che poteva essere fatto nei corridoi della metropolitana trasformati in gallerie commerciali: dai bancomat ai negozi, dagli uffici della metropolitana alle sue attrezzature (telecamere o obliteratrici) è successo di tutto. In totale sulle linee 4, 4A e 5, le stazioni della metropolitana Trinidad, San Jose dell'Estrella, Elisa Correa, Pedrero, Los Quillayes e Santa Julia sono state tutte affidate interamente e senza pietà alle fiamme. Secondo l'ente amministratore della metropolitana, i danni ammontano a 400-500 milioni di pesos (630.000 euro). Attualmente sono del tutto inutilizzabili. Se si può solo salutare la rivolta quando si impadronisce delle strade, auspicando che si approfondisca e superi il suo pretesto iniziale, non tutte le situazioni sono comparabili, come ad Hong Kong dove da diversi mesi i manifestanti colpiscono con cura gli interessi cinesi o in Catalogna dove da diversi giorni le proteste faticano a superare la questione indipendentista (senza menzionare le recenti rivolte sociali in Ecuador, in Iraq o a Beirut...). Ciò che sta succedendo in Cile da alcuni giorni, pur facendo parte di una più vasta ebollizione, dove di volta in volta nuove tasse o aumenti dei prezzi fanno traboccare il vaso, ci sembra richieda tutta l’attenzione solidale degli anti-autoritari, ora che lo stato di emergenza militare sta tentando di reprimere le proteste in gran parte distruttive. E non solo perché tante compagne e compagni combattono senza compromessi da anni in questa parte del mondo. Non esistono anche da noi infrastrutture critiche di trasporto, energia o comunicazione che, come a Santiago, sono indispensabili per perpetuare l'ordine esistente e che sono alla portata di qualsiasi ribelle? Se solidarietà non è solo una parola vuota, è tempo di iniziare ad alimentare e prolungare dove viviamo le rivolte che si stanno sviluppando attorno a noi. E poiché la distruzione, anche dei beni comuni, è un linguaggio che parla direttamente da un angolo all'altro del pianeta... ognuno ha l'imbarazzo della scelta per esprimere la propria rabbia per la libertà in azione contro questo mondo di denaro e gendarmi.  

[19/10/19, tradotto da qui]

Far saltare lo scacchiere

Il terribile rombo che annuncia l'avvicinarsi degli aerei da combattimento; il lungo sibilo dei missili prima della loro esplosione; il crepitio incessante delle mitragliatrici montate sulle jeep; i muri delle case che crollano in un respiro; le fiamme che divorano tutto; le colonne di fumo nero che oscurano il cielo. Ecco la guerra appena scatenata dal presidente turco Erdogan sui villaggi e le città della Siria settentrionale, territori sotto il controllo delle milizie YPG (Unità di Protezione del Popolo), braccio armato del Partito dell'Unione Democratica, e delle altre componenti delle FDS (Forze Democratiche Siriane). Più che una guerra di conquista, una guerra di sterminio delle popolazioni curde e dei loro vicini alleati. A livello strategico, Erdogan non nasconde di preferire vedere una Siria in fiamme, con la sua accozzaglia di macellai jihadisti e governativi, piuttosto che una qualsiasi stabilità in grado di portare alla costituzione di un proto-Stato curdo ai confini con la Turchia. A livello tattico, questo obiettivo si traduce con massicci bombardamenti di tutte le strutture, sia civili che militari, da parte delle forze armate composte non solo da soldati turchi, ma anche da mercenari e islamisti addestrati ed armati da quello Stato, pronti a seminare lo stesso terrore sanguinario in atto durante l'invasione di Afrin all'inizio del 2018. E quando sarà fatta terra bruciata e gli abitanti saranno massacrati o cacciati, lo Stato turco invierà i milioni di rifugiati siriani che oggi sopravvivono nei campi ad insediarsi in questi territori svuotati, piantando i semi di future guerre civili. Le YPG e le FDS si ritrovano oggi sole di fronte all'operazione militare turca. Il loro alleato di ieri, gli Stati Uniti, ha preliminarmente ritirato le sue truppe per consentire la guerra di sterminio voluta da Erdogan. Si può immaginare che l'altro loro alleato, la Francia, abbia fatto lo stesso — sebbene in maniera più discreta, ritirando le proprie unità speciali in missione nel Rojava. Probabilmente, e malauguratamente, la perdita di un alleato di ieri non può che portare alla ricerca di nuovi alleati. Se gli Stati europei si limitano a denunciare la «catastrofe umanitaria» annunciata, o decidono di sospendere temporaneamente le loro consegne d’armi e materiale bellico alla Turchia (ora, dopo che le scorte del loro alleato all'interno della NATO sono state riempite ed i profitti realizzati*), altre potenze si profilano, calcolando pazientemente il proprio tornaconto a spese di migliaia di morti. La Russia ammonisce, ma non intende mettere a repentaglio i suoi nuovi e redditizi contratti d’armi con la Turchia (in particolare i sistemi missilistici terra-aria). C'è anche il carnefice Assad che, contro ogni previsione, è riuscito non solo a scamparla dopo otto anni di guerra civile, ma anche a rendersi indispensabile sullo scacchiere geo-strategico della regione ed a ricostruire il suo Stato. Una simile «alleanza» purtroppo non sarebbe una novità: le milizie curde avevano già concluso degli accordi con il regime di Assad all'inizio della guerra, permettendogli di concentrare la maggior parte delle sue truppe contro gli insorti siriani; e accadde lo stesso durante l'invasione turca di Afrin, quando i dirigenti curdi hanno invitato le truppe del governo siriano a riprendere le loro posizioni nella speranza di frenare quell'offensiva. Certo, oggi qualsiasi riflessione giunge troppo tardi. L'urgenza militare di agire non può che avere la priorità di fronte al massacro programmato del Rojava. Ma se non è il tempo di trarre delle lezioni, è arrivato il momento di scegliere un percorso da seguire, piuttosto che continuare a ritrovarsi al rimorchio delle scelte altrui. Fare affidamento sull’ennesima alleanza provvisoria per cercare di limitare i danni non fa che confermare il ruolo da pedine riservato alle milizie curde. Nello stesso Rojava, la resistenza dà alcuni segni indicativi: piuttosto che opporsi simmetricamente a forze superiori agli ordini dello Stato turco, condurre una guerriglia per impedire qualsiasi occupazione definitiva del territorio. Rinunciare all'esistenza di un «esercito professionale», come i compagni di Lotta Anarchica (Tekoşîna Anarşîst, TA) che là si battono definiscono le forze curde e le FDS, rinunciare alla «guerra convenzionale» (offensiva di terra con un supporto aereo decisivo) così come era stata condotta contro l’Isis, rinunciare persino a una «difesa di territorio». E poi: fondersi nella popolazione «civile» e lanciare, di fronte all'avanzata delle truppe turche e di altri, l'insurrezione. L'insurrezione, non la guerra convenzionale, è l'unica via che potrebbe far fallire il programma dello Stato turco, il quale, oltre alla distruzione delle YPG, mira alla pulizia etnica della regione. Perché in Rojava non ci sono montagne su cui ritirarsi. Da parte irachena, i Peshmerga si impegneranno probabilmente ad evitare qualsiasi ritirata e cercheranno di sbarrare la strada ai rifugiati curdi. E nei territori sotto il controllo di Assad i rifugiati non possono che aspettarsi ostilità, ovvero la morte. Non c'è via d'uscita se il conflitto continua a svolgersi secondo lo stesso paradigma seguito fino ad ora. L'offensiva turca si basa, come dimostrato chiaramente da Trump, sull'acquiescenza internazionale. I lacrimevoli discorsi dei leader europei nascondono un sostegno continuo al regime di Erdogan, dettato da ragioni economiche (il mercato turco è saturo di prodotti provenienti dall'Unione Europea e funge da valvola per la sovrapproduzione che può indurre il crollo dei prezzi), da ragioni politiche (in particolare la questione della gestione dei rifugiati) e da ragioni strategiche (Erdogan minaccia regolarmente di allearsi piuttosto con la parte russa ed aspira a svolgere un ruolo importante nel controllo del Medio Oriente, in particolare con discorsi sull'unità dei sunniti). È questo sostegno che oggi può essere attaccato, per cambiare un paradigma che conduce solo alla catastrofe. Non mediante appelli umanitari, ma attraverso un'intensificazione delle ostilità, attraverso attacchi contro la collaborazione con il regime di Erdogan, attraverso azioni diffuse contro l'industria militare (che, di fronte alla sospensione di forniture di materiale allo Stato turco, non farà che immagazzinare per qualche mese prima di riprenderli non appena girerà il vento). È essenziale ora, in questa tragica ora in cui le truppe si scatenano sul Rojava mentre missili e bombe piovono su villaggi e città, smettere di seguire lo stesso percorso che porta solo alla disfatta. È la collaborazione con qualsiasi potenza esistente (regime siriano, russo, nordamericano, francese, iraniano o dei paesi del Golfo) a minare ogni prospettiva rivoluzionaria sul posto, e non solo: credere che una tale strategia politica possa fare da scudo alle aspirazioni sanguinarie non fa che perpetuare il circolo vizioso del massacro. Gli esempi storici sono innumerevoli, disgraziatamente la scelta non manca. Dalle brigate comuniste di Lister, quei «fratelli in armi contro il fascismo» che massacrano e devastano le collettività libertarie in Aragona durante la rivoluzione spagnola, agli aiuti militari dei paesi del Golfo, quei «fratelli della comunità musulmana» che hanno contribuito in modo decisivo all'egemonia delle unità islamiste e jihadiste e alla sepoltura della rivoluzione siriana. Se non possiamo vincere, rifiutiamo di essere sconfitti dalle pugnalate alle spalle degli alleati di ieri! Lo scacchiere geo-politico è per la prospettiva rivoluzionaria ciò che il petrolio è per il mare. Non è il «massimalismo rivoluzionario» a parlare, sono le nostre aspirazioni... e soprattutto l'esperienza, che dovrebbe farci comprendere che quello scacchiere come tutti gli altri deve essere mandato all’aria, se si vuole cambiare, come diceva qualcuno, non le regole truccate del gioco, ma il gioco stesso. È tardi, molto tardi, per lanciare in aria lo scacchiere su cui non si fa che correre di massacro in massacro. Ma forse non è troppo tardi. La resistenza, anche disperata, può ancora sbarazzarsi delle catene geo-politiche che la condannano all'impotenza. L'internazionalismo, anche tardivamente e nonostante la mancanza di riflessione critica da cui è stato afflitto negli ultimi anni, può ancora mettere dei bastoni tra le ruote delle potenze. Le braccia possono ancora essere tese verso altri insorti, piuttosto che verso altri Stati. Se le fiamme che potrebbero innescare un incendio in tutto il Medio Oriente si alimentano dell'ossigeno fornito da tanti Stati del mondo intero, è ancora possibile accendere altri focolai, qui dove viviamo, scintille con cui non è il massacro a brillare, ma un vecchio sogno di libertà e di solidarietà.  

13 ottobre 2019  

(*) A titolo di esempio, l'industria militare francese ha consegnato ufficialmente armi per 460 milioni di euro alla Turchia da 10 anni, pur sapendo che i principali fornitori di quest’ultima in tale campo sono gli Stati Uniti, la Germania e l’Italia. Inoltre, la Turchia produce direttamente molti armamenti da sé, e sotto licenza (europea o nord-americana).    

[Avis de tempêtes, n. 22, 15 ottobre 2019] Traduzione: Finimondo