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Se vedete un venditore ambulante per strada, non chiamate il numero indicato dal governo per segnalarlo. Andate a comprargli qualcosa. Se notate che gli manca una maschera, non rimproveratelo, vedete se potete procurargliene una.

Non fare il poliziotto.

Se sentite che il vostro vicino ha dei sintomi, non guardate fuori dalla finestra per vedere se lo beccate che esce a fare la spesa. Chiedetegli se ha bisogno di qualcosa.

Non fare il poliziotto.

Se vedete gente per strada che cammina nel vostro quartiere, cercate di non sospettare il peggio, non chiamate il 112. Forse dovevano andare a lavorare. Non tutti hanno il privilegio di chiudersi in casa con il frigorifero pieno.

Non fare il poliziotto.

Se dovete uscire a fare la spesa, non guardate male chi avete intorno per paura di infettarvi. Salutate. Fate conversazione. Non è il vostro nemico.

Non fare il poliziotto.

Se incontri qualcuno che vive per strada, non attraversare l’altro lato della strada per paura. Se potete, uscite di casa con del cibo, una maschera in più, un po’ d’acqua in una tanica.

Non fare il poliziotto.

EVITIAMO LA DIFFUSIONE DEL POLIZIAVIRUS. È un virus che non andrà più via.

Allora fu riconosciuta la presenza della Morte rossa. E tutti i convitati caddero uno ad uno nelle sale dell’orgia bagnate da una rugiada sanguinosa ed ognuno morì nella disperata positura in cui era caduto soccombendo. E la vita dell’orologio d’ebano si spense con quella dell’ultimo di quei personaggi festanti. Le fiamme dei treppiedi spirarono. E le tenebre, la rovina e la Morte rossa distesero su tutte le cose il loro dominio sconfinato

Edgar Allan Poe, La maschera della Morte Rossa

Da una parte lo Stato, con i suoi militari nelle strade, i suoi controlli e la sua propaganda mediatica della reclusione. Dall'altra parte un'epidemia, che in questo mondo sta suggellando la morte come atroce normalità. In mezzo la libertà, tra sogno e utopia, che inebria solo i cuori a contatto con un pensiero senza misure. La morte ha sempre fatto parte di questa esistenza, come svariati virus sono sempre stati a contatto e trasmessi fra le persone. Dalle guerre, alla catastrofi provocate da questo sistema che fa del profitto l'unica ragione d'esistere, fino ad arrivare alle epidemie, conseguenza devastante dell'ordine del mondo. I richiami del Dominio sono tutti incentrati sull'unione. A braccetto, in questo momento di difficoltà storica, devono andare tutti. E l'unione fra oppressi e oppressori ha il sapore del totalitarismo. Tutti in casa, dove lo schermo rende la vita qualcosa che non ha più a che fare con le percezioni e il nostro corpo. Tutta l'alienazione sprigionata da un esistente che fa della tecnica la chiusura totale dell'immaginario, per darsi alla virtualità del reale. Da una parte le persone sembrano sottostare al diktat del potere. Dall'altra, le cifre versate dalle forze della repressione sembrano dire il contrario: impressionanti le denunce giornaliere fatte dai tutori dell'oppressione verso quegli individui che non hanno nessuna intenzione di starsene chiusi a chiave in casa. E qui dovremmo fare i conti con la consapevolezza. C'è chi trasgredisce l'ordine perché convinto che questo sia una delle strade più battute che potrebbe portare alla libertà. C'è chi invece lo fa per battere semplicemente la noia della auto-segregazione. O c'è chi proprio non ha intenzione di privarsi della possibilità di vedere i propri affetti. In mezzo alla pandemia, una retorica asfissiante ci dice che il problema ormai siamo noi. Più specificatamente il nostro corpo, un tutt'uno con il nostro cuore e il nostro pensiero.

Nulla è più caratteristico dell'incapacità umana nel comprendere ciò che ci sta intorno, ciò che viene fabbricato. Questo tratto annebbia e offusca la singolarità individuale. Essere concepiti come produttori di cose incide sulla nostra capacità di immaginare qualcosa che sia scarto assoluto con questo mondo. L'inconoscibile ci fa tremare le gambe. Ed in questi momenti di pandemia sociale che l'umanità assomiglia sempre più ad un ingranaggio della Mega-macchina. Se la scoperta del mondo viene mediata da uno schermo, allora questa scoperta assume le sembianze catastrofiche di un artificio. Se tutto ci viene dato, detto come verità incondizionata, la nostra dipendenza dall'esistente diviene affabile. Il Ministero della Verità attraverso uno schermo e i replicanti al mercato delle opinioni sono dappertutto. Quando i desideri si trasformano in bisogni, quando viene defenestrata la possibilità del perdersi nell'ignoto, ecco che l'umanità oltre ad essere ingranaggio si tramuta nella più fervente e feroce disumanità. L'angoscia diventa un prodotto, l'efficacia colonizza la mente e il corpo viene devastato perché ridotto a una funzione meccanica. Possiamo continuare a sopravvivere in presenza dello sterminio?

La repressione generale forma l'individuo e universalizza perfino i suoi tratti personali

Herbert Marcuse, Eros e civiltà

È da tanto tempo che il corpo viene visto come qualcosa da integrare, stravolgere e fortificare con protesi tecniche. Il corpo svuotato della sua unicità adesso si trova assediato dalla profonda medicalizzazione in atto e dalle sue conseguenze in cui l'incontro sta diventando vietato. Ormai gli individui vengono considerati tutti come possibili untori, possibili portatori della morte. E quando un corpo viene considerato solo un sostegno alla tecnicizzazione del mondo, quando esso deve sparire in favore di relazioni perpetuate attraverso degli schermi, allora quel corpo viene svuotato delle idee e le idee viaggiano in linea senza corpo. La questione che abbiamo davanti, che ci interroga, non dovremmo sentirla epocale per un'emergenza epidemica in atto che cade in un momento dove varie sacche di popolazione fanno dell'addomesticamento una virtù, ma per il solo fatto che una crisi dell'intero sistema dello sfruttamento non necessariamente ne definirà il crollo totale, ma molto più semplicemente tenterà una trasformazione della vita in senso ancora più securitario e liberticida. Il sistema ha sempre bisogno di una crisi per ridefinirsi più dominante. E se il prossimo passo fosse rafforzare la legislazione per fortificare la solitudine tecnica?

Per il crollo di una intera civiltà servono senza dubbio pensiero sovversivo, leggerezza del negativo e istinto di libertà. Tutto questo non è possibile se non doniamo il nostro corpo ad un desiderio scatenante di insurrezione. Il corpo è la pericolosità della sedizione. Sentire di non appartenere a questo mondo potrebbe dare sfogo all'impossibilità di integrarsi in esso, nel cogliere pienamente la capacità di negare la realtà, di prenderne le distanze. Se la tecnica e l'energia che la fa funzionare stanno aiutando la reclusione ad essere accettata come una pillola da ingoiare, allora sentire significa dar vita ad un'esperienza dell'inedito, nel dare corpo ad un'Idea disinibita e accattivante. Coglieremo l'occasione di essere imprevedibili? Se dopo la pandemia sarà la carestia ad accentuarsi ancora di più, in mezzo cosa potrà accadere? Riusciremo a bloccare il migliore dei mondi possibili senza contagiarci di paura?

«La tirannia più temibile non è quella che assume la forma di arbitrio, è quella che viene coperta dalla maschera della legalità»

A. Libertad, 1907  

Con l’epidemia passeggera di Covid-19 che si propaga nel mondo e le drastiche misure che si susseguono le une dopo le altre dalla Cina all’Italia, una delle prime questioni che vengono in mente è chiedersi chi, fra la gallina dell’autorità e l’uovo della sottomissione, stia facendo attualmente i maggiori danni. Questa brusca accelerazione statale di controlli, divieti, chiusure, militarizzazione, obblighi, bombardamenti mediatici, zone rosse, definizione delle priorità dei morti e delle sofferenze, requisizioni, confinamenti di ogni genere — tipici di qualsiasi situazione di guerra o di catastrofe — non cade infatti dal cielo. Prospera su un terreno ampiamente arato dalle successive rinunce dei coraggiosi sudditi dello Stato ad ogni libertà formale in nome di una sicurezza illusoria, ma prospera anche sullo spossessamento generalizzato di ogni aspetto della nostra vita e sulla perdita della capacità autonoma degli individui di pensare un mondo completamente diverso da questo. Come cantilenava un anarchico quasi due secoli fa, essere governato equivale per principio ad «essere guardato a vista, ispezionato, spiato, diretto, legiferato, regolamentato, recintato, indottrinato, catechizzato, controllato, stimato, valutato, censurato, comandato», e questo «con il pretesto della pubblica utilità e in nome dell’interesse generale». Che la dittatura sia opera di uno solo, di un piccolo gruppo o della maggioranza, non cambia nulla; che essa sia animata dal vizio o dalla virtù nemmeno; che si sia in tempi di epidemia di domesticità tecnologica o più banalmente in tempi di influenza cittadinista o poliziesca neppure. Quali che siano le apparenze protettive adottate dal governo degli uomini e delle cose del momento, quali che siano i pretesti securitari su cui si basa, ogni governo è per sua natura nemico della libertà, e non sarà la situazione in corso a smentirci. A questa banalità di base che delizia gli adoratori del potere in alto e fa brillare gli occhi di quelli che lo anelano in basso, aggiungiamo che non esistono neanche pastori senza greggi: se l’esistenza stessa di un’autorità centralizzata sotto forma di Stato consente certo l’improvvisa imposizione degli arresti domiciliari su una scala inedita a interi settori della popolazione qui e là, è comunque una servitù volontaria largamente integrata, preparata e costantemente rinnovata a rendere questo genere di misure possibili e soprattutto efficaci. Ieri in nome della guerra o del terrorismo, oggi in nome di un’epidemia, e domani in nome di qualsivoglia catastrofe nucleare o ecologica. L’emergenza e la paura sono in materia le uniche consigliere per i dormienti terrorizzati che, una volta privati di ogni mondo interiore che sia proprio, si rifugeranno in un riflesso condizionato verso la sola cosa che conoscono: nelle braccia muscolose di Papà-Stato e sotto le gonne rassicuranti di Mamma-la-Scienza. Un lavoro quotidiano effettuato non solo da diversi decenni di repressione dei refrattari all’ordine del dominio (del salariato, della scuola, della famiglia, della religione, della patria, del genere) a partire dall’ultimo tentativo di assalto al cielo negli anni 70, ma anche dall’insieme degli autoritari e dei riformisti che non smettono di voler trasformare gli individui in greggi, in accordo con un mondo che coniuga perfettamente atomizzazione e massificazione.  

«Per l’individuo, non esiste alcuna necessità dettata dalla ragione di essere cittadino. Anzi. Lo Stato è la maledizione dell’individuo. Bisogna che lo Stato scompaia. È una rivoluzione alla quale parteciperei volentieri. Distruggete integralmente lo stesso concetto di Stato, proclamate che la libera scelta e l’affinità spirituale sono le condizioni uniche e sole importanti di qualsiasi associazione e otterrete un principio di libertà che varrà la pena di godere»

H. Ibsen, 1871  

Una decina di anni dopo aver fatto questa constatazione in una lettera inviata a un critico letterario, il drammaturgo norvegese Henrik Ibsen, che pur viveva ufficialmente di rendita, scrisse un’opera teatrale che avrebbe infiammato certi anarchici: Un nemico del popolo. La storia si svolge in un villaggio le cui acque sono contaminate da un batterio letale, provocando una lite tra i due fratelli, medico e prefetto, che hanno fondato lo stabilimento termale del luogo. Bisogna mettere sì o no in discussione il loro ricco avvenire realizzando le disastrose opere del sistema idrico del villaggio, avvisando gli abitanti del pericolo? Dopo essere ad un palmo dal convincere la folla a fermare tutto, il buon dottore vedrà quest’ultima rivoltarglisi contro sotto la pressione dei notabili e l’influenza del giornale locale, e finirà solo contro tutti. Ma che non ci si inganni. In quest’opera, Ibsen non intendeva lodare la verità della scienza di fronte all’oscurantismo o al mercato (quello stesso anno, il 1882, usciva in francese la critica postuma di Bakunin sulla rivolta della vita contro la scienza), bensì denunciare la tirannia della «maggioranza compatta», di quella massa versatile che ondeggia in base agli interessi dei potenti. È passato più di un secolo da questo successo teatrale che sembra ormai di un’altra galassia, e il matrimonio tra ragione di Stato e scienza della ragione ha da allora ampiamente dimostrato tutto l’orrore di cui era capace, dai massacri industriali, militari e nucleari di massa dentro e fuori le frontiere, fino all’avvelenamento duraturo dell’intero pianeta e alla connessione irreggimentata delle relazioni umane. In un mondo globalizzato dove gli umani sono continuamente in preda a ristrutturazioni tecno-industriali che sconvolgono ogni percezione sensibile (dalla vecchia separazione tra ciò che si produce e la sua finalità fino al significato stesso del reale), cosa resta allora agli spossessati quando sopraggiunge l’ignoto di un nuovo virus mortale? Aggrapparsi a statistiche fluttuanti che sostengono che circa il 70% della popolazione sarà interessato dal Covid-19, che solo il 15% delle persone colpite soffriranno di sintomi più o meno gravi, e che il 2% morirà in base all’età avanzata e alle precedenti condizioni di salute? Seguire come al solito gli ordini del potere che regola già ogni sopravvivenza dalla nascita alla morte, tra il ricatto della fame e quello del carcere, nell’attesa come per il clima che siano gli stessi gestori delle cause a risolvere le conseguenze? Interrogarsi sulla differenza tra la sopravvivenza e la vita, tra la quantità di una vita che diminuisce inesorabilmente fino alla sua estinzione da quando si nasce, e la sua qualità, ciò che vogliamo farne qui e ora, a prescindere dalla sua durata che non si conosce in anticipo? Una qualità che si può anche mettere in discussione quando è separata da ogni aspirazione alla libertà, quando è disposta alla reclusione volontaria con un semplice schiocco di dita del capo-branco. Giacché, piuttosto che stupirsi della gestione cinese autoritaria e tecnologizzata dell’epidemia di Covid-19, è proprio così che 60 milioni di italiani hanno rinunciato dall’oggi al domani, la sera di un certo 9 marzo, al minimo spirito critico accettando l’«Io resto a casa», decretato dallo Stato per almeno quattro settimane dopo aver testato l’istituzione di un’immensa zona rossa che tagliava il paese in due. Nel momento in cui scriviamo, questo genere di misure di rigorosa quarantena su così vasta scala si è esteso alla Spagna (47 milioni di abitanti), mentre Portogallo, Romania, Serbia e Stati Uniti hanno appena dichiarato lo stato di emergenza, con tutto ciò che questo comporta in termini di coercizione di fronte agli irresponsabili che osassero sfidare la grande reclusione regolata con tanto di permesso di circolare tra ciò che in definitiva costituisce la base: casa-lavoro-supermercato. Per dare un’idea del seguito, l’esercito assistito da droni è stato appena schierato in Spagna nelle stazioni e nelle strade delle grandi città (polizia militare e membri dell’Unidad Militar de Emergencias, UME), idem in Italia con i 7000 soldati che non le hanno mai lasciate dopo l’operazione Strade Sicure del 2008, e altrettanti che sono in massima allerta in previsione di disordini quando il picco di contagio raggiungerà il sud della penisola. Ogni paese potrà anche conservare per il momento le sue piccole peculiarità in termini di permessi di luoghi pubblici «non essenziali» al fine di mantenere un briciolo di facciata democratica — edicole e profumerie in Italia, commercianti di vino e hotel in Francia, mercati e parrucchieri in Belgio —, ma senza alcuna illusione circa la sua durata. Stiamo assistendo a un movimento di unità nazionale che tocca la maggior parte degli ambiti della vita (sopravvivenza) attorno ad un ordine che si è dato carta bianca, e questo ad un livello senza precedenti nella maggior parte dei paesi occidentali dalla seconda guerra mondiale. Un esercizio di servitù volontaria che era stato bene preparato e rodato su piccola scala dalle diverse emergenze di «terrorismo» o di «catastrofi naturali» in questi ultimi anni in vari luoghi, ma mai così a lungo e con tale intensità. E non v’è dubbio che questo esercizio rischia di durare molto più di quanto annunciato, aprendo a nuove situazioni ancora difficili da anticipare o prevedere.  

«L’aria è immobile. Come sono lontani gli uccelli e le fonti! Non può esserci che la fine del mondo, più in là»

A. Rimbaud  

Di fronte a ciò che il gregge sa fare meglio, eseguire le consegne, resta anche un certo numero di individui che non intendono sottomettersi così facilmente, per vari motivi, altri che cercheranno sicuramente di trovare falle nei dispositivi di confinamento una volta dissipato l’effetto disorientamento (e con l’ausilio della noia dell’autoreclusione), oltre a quegli animi valenti che intendono continuare la loro incessante opera per minare il dominio o cogliere le opportunità che si aprono. In fondo, perché mai il virus dell’autorità dovrebbe fare a meno di utilizzare la paura come ha sempre fatto, anche a costo di esacerbarla o di crearla in base alla necessità, non solo per intensificare il suo controllo sui corpi e le menti, ma soprattutto per rafforzare il veleno di una sottomissione di fronte ad un imprevisto che, sfuggendogli, può rimescolare le carte? Cosa c’è di più sicuro per il potere di una guerra in cui unione sacra, religione e sacrifici saldano attorno ad esso gran parte della popolazione? ma anche di più aleatorio di una guerra persa o che non è in grado di condurre, con un iniziale malcontento non di opposizione ma di contestazione per una cattiva gestione o un prezzo troppo pesante da pagare, che a sua volta può portare ad una messa in discussione più globale, se i tentativi rivoluzionari successivi alla prima guerra mondiale negli imperi sconfitti (Germania, Russia, Ungheria) vi dicono ancora qualcosa. Ci verrà replicato che i tempi sono cambiati e che allora esisteva almeno un’utopia sostitutiva dell’esistente. Ma ciò non toglie che uno Stato occidentale contemporaneo sopraffatto dal panico di sopravvivenza, da una rabbia di fronte a tassi di mortalità più elevati per via di un sistema sanitario che era stato largamente smantellato, da un virus che può immobilizzare momentaneamente dal 20 al 30% di qualsiasi professione (110 celerini di Grasse sono confinati dal 12 marzo, così come tutti gli sbirri del commissariato di Sanary-sur-Mer dal 14 marzo, o i loro 400 colleghi parigini della Brigade des réseaux franciliens) creando occasioni, o da rivolte di determinate aree o categorie della popolazione, e tutto ciò all’interno di una economia indebolita*, si trova davanti ad una situazione nuova che potrebbe anche sfuggirgli di mano. In materia di pacificazione sociale come di conflittualità, è alquanto comodo per chiunque vedere le cose come gli conviene o solo ciò che gli si presenta davanti al proprio naso, e ancor più quando le informazioni diffuse dai portavoce del potere si fanno sempre più avare, cosa più evidente in tempi di crisi o d’instabilità dove tutti serrano i ranghi. Ma chi ha mai pensato che i giornali o i social network fossero il riflesso della realtà, o che quando non dicono nulla dell’antagonismo in corso, tranne che per trasformarne il significato o vantarsi di qualche arresto, non è successo niente? Pur sapendo che si è solo all’inizio di un nuovo periodo che si apre e potrebbe durare mesi, senza seguire alcuna traiettoria in linea retta, uno dei primi segnali di rivolta è arrivato dalle carceri italiane, e in che modo! In seguito alle misure prese dallo Stato contro la diffusione del Covid-19 e riguardanti anche le carceri (divieto dei colloqui, soppressione della semi-libertà e delle attività all’interno), i primi ammutinamenti sono scoppiati il 7 marzo e si sono estesi ad una trentina di carceri da nord a sud nello spazio di tre giorni. Almeno 6000 prigionieri si sono ribellati: guardie o personale presi in ostaggio, apertura di celle e devastazione di sezioni o addirittura di intere prigioni (come quella di Modena, inutilizzabile), vari incendi e occupazione di tetti, ma anche evasioni come a Foggia dove in 77 sono riusciti a scappare (quattro sono ancora liberi) forzando l’accesso verso l’uscita dopo aver distrutto tutti gli schedari ed i documenti relativi alla loro identità, e almeno una dozzina di morti hanno segnato questa prima ribellione. In un altro ordine di idee, a seguito del grande confinamento decretato oltralpe, dove ogni individuo che si trovi fuori casa deve essere munito di autocertificazione (una dichiarazione sulla parola) che ne attesti il motivo, spuntando la casella tra lavoro, salute e un altro molto limitato relativo alle sole necessità autorizzate dallo Stato (come fare la spesa o portare a spasso il cane, ma unicamente da soli e nel proprio quartiere), quest’ultimo ha reso noti i dati relativi ai primi giorni del coprifuoco: su 106.000 persone controllate, quasi 2.160 sono state multate per violazione dello stato di emergenza (11 marzo), poi su 157.000 controllati, è toccato ad altri 7.100 (13 marzo). I casi più disparati vanno dagli impertinenti che hanno osato incontrarsi per bere una birra in un parco agli impudenti che hanno approfittato della spiaggia deserta per provare un beach volley, fino a un padre di famiglia andato a comprare una playstation per il suo figliolo bloccato a casa o una coppia che preferiva litigare faccia a faccia piuttosto che a distanza al telefono, fino al tentativo di festeggiare un compleanno tra amici o di giocare a carte tra vicini, nonostante il decreto imponga che ognuno stia a casa in base alla residenza dove è registrato e che possa uscire uno alla volta, giustificandosi ad ogni controllo. Molte grandi città (Milano, Bologna, Torino, Roma) hanno chiuso così parchi, giardini, piste ciclabili o altrove le spiagge, per impedire ai recalcitranti di ritrovarsi approfittando del bel tempo. Tuttavia, non si può fare a meno di pensare che questi timidi atti di trasgressione siano attualmente più legati alla improvvisa moltiplicazione di divieti che ad una ribellione contro queste misure. Se molti dispongono ormai di più tempo libero, essendo lontani dalla scuola o dal lavoro, si ritrovano pur sempre ingabbiati allo stesso modo di prima: secondo le modalità del potere. Disobbedire ad un ordine perché modifica troppo in fretta un’abitudine radicata non è affatto la stessa cosa che rifiutare che una qualsiasi autorità possa dare ordini, o strappare volontariamente il tempo e lo spazio al dominio per trasformarli in altro. Si chiami esso Santa economia o Bene comune. Infine, poiché siamo solo all’inizio di questa ondata presto mondiale di misure che vietano anche le manifestazioni di strada, precisiamo che l’Algeria che le ha appena vietate in nome del Covid-19 ha dovuto affrontare violazioni di massa il 13 marzo, in particolare in Cabilia, in occasione della 56° settimana di proteste contro il potere; che in Cile, dove la rivolta è ripresa all’inizio di marzo dopo la fine delle vacanze, il ministro della Sanità ha annunciato che il paese sta per entrare nella fase 3 con l’istituzione di una quarantena di massa; e che in Francia, dove lo Stato aveva deciso il 13 marzo di abbassare da 1000 a 100 persone la soglia limite per i raduni, le manifestazioni di strada risultano ancora un’eccezione «utile alla vita della nazione», tollerata per timore di reazioni troppo violente, e si confida che i sindacati cessino loro stessi di organizzarle (a Lione, il 13 marzo, 3000 giovani hanno ad esempio sfilato cantando «Non è il corona che ci avrà, è lo Stato e il clima», per non parlare della manifestazione parigina dei gilet gialli del 14 marzo che si è scontrata con la polizia lasciando sulla sua scia diverse carcasse di auto bruciate). Da parte dei nemici dell’autorità, infine, molti rischiano fortemente di essere colti alla sprovvista se non hanno pensato alla questione in anticipo, quando scoppia questo genere di situazione: non quella di una rivolta inaspettata, ma di un improvviso e brutale inasprimento dei margini di manovra, ad esempio in termini di spostamento come accaduto all’inizio della rivolta in Cile con il coprifuoco, o da una settimana in Italia e poi in Spagna con la messa in quarantena di tutto il paese. E ciò non solo per via della moltiplicazione dei controlli, ma anche a causa della collaborazione dei cittadini che disertano su comando lo spazio pubblico lasciando allo scoperto i refrattari o moltiplicando le denunce, occupati come sono ad annoiarsi dietro la loro finestra di confinamento volontario e desiderosi di far rispettare misure che considerano protettive. Pensare alla questione quando non è ancora stata posta, significa ad esempio conoscere i passaggi che conducono da casa verso posti più propizi, o avere già identificato quali occhi dello Stato appollaiati in alto siano da bucare per aprirne di nuovi, ma anche come uscire dalla città con agilità (questa volta con le maschere consigliate dal potere!) o quali sentieri di campagna imboccare per poter anticipare nuovi controlli e posti di blocco all’orizzonte. Significa anche, altra difficoltà del grande confinamento, immaginare come e dove procurarsi qualche mezzo per agire in caso di carenza di rifornimenti anticipati (molti negozi non alimentari sono chiusi). Ciò può anche essere una agevole occasione per riconfigurare il problema della comunicazione non mediata dalla tecnologia tra complici più o meno dispersi, la cui circolazione può improvvisamente diventare più complicata, e — perché no? — trovarne di nuovi che, per proprie ragioni, avvertono le stesse esigenze di sfuggire all’invasione di controlli di strada (la grande reclusione volontaria ha questo di particolare, che mette ancora più a nudo l’insieme di individui che non intendono piegarsi). Altrettante questioni da affrontare con urgenza, quindi, e occasioni per ripensare, osservare e cambiare il proprio sguardo su un territorio ieri noto, ma nel quale gli spazi ed i margini possono anche diminuire drasticamente qui ma allargarsi altrove, o venire trasformati dai nuovi imperativi del potere in materia di gestione dei soli flussi epidemici casa-lavoro-supermercato. Da parte del potere, la maggior parte dei piani di crisi messi in atto nei diversi paesi (in Italia e Spagna, con Germania o Francia ancora bloccate dalle prossime elezioni amministrative) fino ad ora fanno emergere alcune costanti che sarebbe pure un peccato ignorare. Per esempio, è l’occasione per il capitalismo di spingere verso un’accelerazione di quella che alcuni chiamano da un po’ di tempo la quarta rivoluzione industriale (dopo quella del vapore, dell’elettricità e dell’informatica), ovvero l’interconnessione digitale totale in tutti gli ambiti della vita (dalla fisica alla biologia o l’economia). Pensiamoci: centinaia di milioni di studenti dalle elementari all’università che oscillano improvvisamente in diversi paesi su corsi permanenti a distanza in seguito alla chiusura di tutti i luoghi fisici d’insegnamento; altrettanti lavoratori che da parte loro vengono messi al telelavoro (dal 20 al 30% in media), indipendentemente dal fatto che vi siano abituati; la moltiplicazione su scala di massa di diagnosi tramite schermo interposto in seguito alla saturazione degli studi medici; l’esplosione dei pagamenti con carta di credito per paura di essere contaminati attraverso la manipolazione di monete e banconote. E se a tutto questo aggiungiamo il fatto che le popolazioni confinate si dedicano volentieri a tutto ciò che impedisce loro di pensare o di sognare, buttandosi sugli acquisti on line, sulle serie televisive, sui giochi in streaming o sulla comunicazione virtuale tra umani, diventa chiaro che le antenne delle reti di telefonia mobile, i cavi in fibra e gli altri nodi di connessione ottica (NRO) o più semplicemente le reti energetiche che alimentano tutto ciò, assumono un’importanza ancora decuplicata. Non solo per la produzione o i passatempi, ma semplicemente come principale cordone ombelicale tra i lazzaretti individuali e il mondo vivente, in effetti più che mai derealizzato. Allora, sapendo che una bella antenna, un trasformatore, un palo elettrico o un cavo in fibra diventano più che mai determinanti nel contempo per trascorrere il tempo dell’auto-reclusione, per il lavoro e l’educazione di massa a distanza, ma anche per la trasmissione delle consegne del potere in camice bianco e per il pedinamento tecnologico del controllo (e non solo in Cina o in Corea del Sud), ciò non apre piste interessanti per spezzare questa nuova normalità da cui trae pieno beneficio il potere? Per non parlare del possibile effetto valanga, visto l’aumento più che conseguente del traffico Internet e telefonico, come della minor disponibilità di tecnici causa malattia… Il secondo punto che sembra costante nei piani d’emergenza europei, è la priorità data al mantenimento minimo dei trasporti, al fine di condurre i lavoratori non confinati verso le industrie e i servizi definiti critici, di perpetuare il flusso di merci su camion o ferrovia verso questi ultimi, così come il rifornimento delle città le cui riserve sono notoriamente limitate a pochi giorni. Anche qui, si tratta di un’occasione da non trascurare per chi volesse destabilizzare i settori economici che il governo intende preservare ad ogni costo e che diventano più visibili (in Catalogna si parla attualmente di creare corridoi speciali di lavoratori sani e di beni verso determinati luoghi di produzione).  

In tempi d’emergenza e di crisi a questi livelli, in cui tutti i rapporti sociali vengono messi brutalmente a nudo (in termini di spossessamento come di priorità dello Stato e del capitale), in cui la servitù volontaria guidata dalla paura può rapidamente trasformarsi in incubo, in cui il dominio deve a sua volta adattarsi senza tuttavia controllare tutto, saper agire in territorio nemico non è solo una necessità per chi non intende soffocare nella sua piccola gabbia domiciliare, ma è anche un momento importante per lanciare nuove bordate contro i dispositivi avversari. In ogni caso, quando ci si batte per un mondo completamente altro verso una libertà senza misura.    

* A titolo di esempio, numerose industrie cominciano ad essere rallentate a causa dell’interruzione delle catene di approvvigionamento provenienti dalla Cina, mentre la Germania ha appena annunciato prestiti alle aziende garantiti dallo Stato per un valore di 550 miliardi di euro, ossia un piano di aiuti ancora più forte di quello messo in atto durante la crisi finanziaria del 2008. Molti cominciano a parlare di un periodo di recessione mondiale.    

[Avis de tempêtes, n. 27, 15 marzo 2020, traduzione di Finimondo]

È passata poco più di una settimana dalla rivolta nel carcere di Modena e i media si son già dimenticati del massacro avvenuto in quel carcere e negli altri dove la rivolta è divampata pochi giorni fa. Nove morti solo a Modena.

Chi scrive, alcuni di loro li ha conosciuti perché se li è trovati nella cella a fianco fino ad un mese fa e in questi giorni, ci ha perso il sonno nel pensarli.

Uomini con i quali si cercava di discutere su cosa si potesse fare per migliorare la situazione che si stava creando nel periodo precedente.

Per molti cominciava a pesare quel clima creato dalla nuova direttrice Maria Martone la quale, per ordine del DAP, stava risistemando i detenuti in modo restrittivo. “C’è bisogno di posto” si diceva in febbraio “dovete venirci incontro”, il tutto condito da minacce neanche troppo velate di possibili trasferimenti o altro nel caso in cui i detenuti non collaborassero passivamente alle necessità della nuova direzione. Questo clima si intrecciava ai classici problemi di ogni luogo di restrizione: le negligenze e le angherie degli uomini in divisa, della burocrazia del sistema carcere, del cibo pessimo, della mancanza di una copertura sanitaria seria che non fosse la famosa terapia nonché la totale solitudine e disperazione di persone abbandonate e senza nessun aiuto da fuori. La paura del virus, può essere stata una miccia in un calderone pieno di rabbia e disperazione, ha dato voce ai corpi e alle gole degli oppressi, che per colpa di questa società si trovano rinchiusi dentro le galere. Troppe cose, troppe, sono state dette sulla rivolta del carcere di Modena sputando addosso ai morti e ai prigionieri tutti di quel carcere. Quasi nessuno si interroga seriamente e in profondità sul perché tutto questo sia accaduto,. Non c’è bisogno di nessuna regia occulta per capire che è causa del mondo stesso del carcere con tutti i problemi delle persone recluse. Nel momento della rabbia, la diffidenza e lo scetticismo cadono e una massa di individui si unisce, ognuno con il suo dolore, con la sua voglia di riscatto e trovano la forza di far sentire con decisione e coraggio anni di repressione di Stato pagata sulla propria pelle. Chi non ha mai dormito dentro una cella, dalla parte del blindo del prigioniero, non può capire cosa voglia dire stare dentro al carcere. Tutti quelli che si son riempiti la bocca come avvoltoi con questi fatti non meritano ascolto perché non sanno di cosa parlano, tanto i morti sono tutti “tunisini tossici”, monnezza dice qualcuno. C’è chi parla di aprire forni, di bruciarli vivi. Chi scrive ha visto si persone che usavano le maledette terapie, non tutti riescono a vivere il carcere in modo lucido, ma dire che è stata assaltata l’infermeria e che c’è stato un abuso di farmaci a noi questo non ci interessa. Il nostro giudizio a riguardo è come la bussola che indica il Nord anche quando la scuoti, il nostro indice indica sempre la stessa direzione, la colpa di quelle morti è dello Stato: dall’ultima guardia carceraria alla volontaria che giustifica l’operato della direzione e chiede quiete e sicurezza, dalle stellette del comandante, al Ministro Bonafede, a chi come Salvini diceva “ve l’avevo detto”. Anchenoi diciamo “ve l’avevamo detto”, ma in un verso completamente contrario al suo. Noi lottiamo per la libertà di tutti e tutte, lontani un abisso da lui che vuole un carcere militarizzato. Si lamenta che le guardie avevano pochi mezzi, ma se è stato sparato del piombo e si vede benissimo una delle guardie del magazzino con il mitra in mano che mira ad altezza uomo?! Quali mezzi mancano? I blindati? I mitra? I manganelli? Gli idranti? Gli elicotteri? Le richieste dei detenuti non solo vengono sminuite, ma vengono cancellate le rivendicazioni prettamente politiche delle loro richieste, quello che è successo non è solo disperazione. Anzi, il rimbalzo tra carceri delle proteste fa capire che proprio chi ha limitata la libertà è l’unico che ad oggi sia riuscito a dare una risposta collettiva alle restrizioni imposte dallo Stato per l’emergenza coronavirus. Da qui non si tornerà indietro si dice spesso in questi giorni, è vero anche per il carcere. Queste rivolte faranno si che da Roma verranno presi provvedimenti sempre più restrittivi perché è l’unica lingua che una struttura come il DAP comprende, le rivolte prossime future verranno represse e intanto le notizie si susseguono di continui pestaggi di massa dei detenuti indipendentemente se uno ha partecipato o no alle rivolte.

L’unica comunicazione da parte del Ministero sono le botte in modo tale che tutti e tutte si ricordino di non osare più ribellarsi perché lo spavento provato una volta tanto dagli aguzzini è stato tanto e lo Stato italiano ha fatto una brutta figura a livello internazionale. Intanto i detenuti sono sballati in ogni dove, si sa che da Modena i rivoltosi sono partiti mezzi nudi e gonfi di colpi e le famiglie ancora attendono preoccupate un contatto diretto con i propri cari.

Il rapporto di forza per pochi giorni si è capovolto, i detenuti hanno trovato la forza di unirsi, non tutti, va bene ma questo poco importa, per far uscire la loro voce come da tanti anni non si vedeva in questo paese, i media hanno già messo nel cantuccio le notizie che in realtà si susseguono tramite i familiari delle persone recluse. Non è finita qui, si capisce bene, c’è chi invoca più carceri razionali che non si sa cosa voglia dire, chi chiede l’esercito fuori dalle galere, chi chiede di blindare i prigionieri nelle celle, e tutto questo non fermerà né il dolore né la rabbia di uomini e donne recluse perché è la stessa struttura che alimenta lo scoppio, spesso imprevisto, di rivolte come queste. Troppe cose sono state sopportate in questi anni e le ulteriori restrizioni hanno tolto opacità al malessere diffuso in ogni galera e noi sappiamo che, anche chi non ha partecipato alle rivolte in cuor suo ha sorriso, perché non c’è gioia più bella per un galeotto che quella di sapere che un carcere è stato chiuso tramite una rivolta e che qualcuno sia fuggito, perché sa bene cosa voglia dire stare in una maledetta cella. E gli sfruttati che oggi subiscono passivamente questo periodo di assenza totale di libertà, di totale asservimento allo Stato e ai tecnici, in futuro si ricorderanno chi all’inizio aveva lottato. Gli sfruttati tutti pagheranno quello che lo Stato sta cercando di placare con vari decreti, manovre economici e non solo. Siamo solo all’inizio di una nuova e lunga lotta da fare e da prendere di petto.

A noi fuori spetta dar voce e solidarietà a queste lotte facendo comprendere agli sfruttati che il loro senso non è per nulla irrazionale. E c’è una parola che di solito viene usata con parsimonia ma che alla luce dei fatti successi richiede di essere innalzata sul pennone delle future lotte contro il carcere, la parola è vendetta. Il silenzio su quegli uomini assassinati dal sistema carcere è diventato assordante. Meritano di essere ricordati oggi e in futuro per far si che tutto quello che sta accadendo abbia un significato profondo.

16.03.2020

Trieste

Stiamo costruendo questo sito per affrontare la situazione nata dall’epidemia di Corona virus:

Di fronte ad una piaga mondiale abbiamo bisogno di condividere riflessioni radicali al di là di confini linguistici e nazionali.

Perché dalla piaga può nascere il fuoco.

E il fuoco può portare la libertà.

Questo sito nasce dalla volontà di condividere riflessioni e materiali sulle conseguenze di questa epidemia. Alimentare una discussione che permetta di confrontare gli strumenti critici che danno ad ognun la possibilità di agire nel presente.

Agire con un fine di sovversione dell’attuale ordine sociale, per liberare il pianeta e tutto il vivente dalla piaga di questa società.

Come ci ricorda la storia di Londra, dalle piaghe può nascere il fuoco, dal fuoco la demolizione delle strutture del dominio. Nell’incendio del 1666, durante l’epidemia di peste, bruciarono decine di chiese e buona
parte degli edifici pubblici. Purtroppo, a seguito di quell’ incendio, Londra venne ricostruita in un modo che favorisse il controllo sociale e il governo della città. Questa volta vogliamo evitare che il momento di crisi porti ad una ristrutturazione del sistema attuale.

Perché non potrebbe avvenire che in senso maggiormente autoritario e securitario.

Ci troviamo di fronte ad una delle più grandi crisi che l’assetto sociale dominante abbia mai conosciuto: l’impianto ideologico che cerca di giustificarlo sta crollando sotto l’evidenza di un disastro ecologico che si aggrava costantemente in un pianeta sovra-popolato, interamente abitato e colonizzato dagli esseri umani.

In una simile situazione si inserisce la pandemia che stiamo vivendo, evento ampiamente prevedibile e quasi scontato che, molto probabilmente, si ripeterà in futuro con attori – vuoi virus, carestie, eventi climatici ed atmosferici catastrofici – diversi.

La conseguente reclusione di buona parte della popolazione, causata dall’ eco-fascismo di turno, potrebbe condurre a situazioni di insofferenza, ribellione, rivolta.

Così chi ha dedicato la vita alla pratica dell’obbedienza in cambio della sicurezza della costrizione, dell’obbligo, di colpo scopre che uno starnuto può condurre ad una fine inattesa.

Senza più sicurezze, scegliere di continuare a seguire la strada dell’obbedienza non può che offrire le stesse incertezze offerte dalla sua diserzione, dalla scelta azzardata del cammino che conduce alla rivolta. Un sentiero non tracciato, che si lascia alle spalle secoli di dominazione per esplorare un futuro di liberazione.

Per tracciare questo cammino, o per lo meno per cercare di seguirlo, è necessario aprire un dibattito, confrontarsi continuamente su come reagisce il dominio all’ evolversi degli eventi, capire come colpirlo e come sostenere le rivolte che scoppieranno.

Al di là di lingue e confini.

Come contribuire?

Questo sito è uno strumento in costante cambiamento, aperto alla collaborazione e all’aiuto di chiunque colga l’importanza di un confronto: traduzioni, notizie, proposte, elaborati grafici e diffusione dei diversi testi sono tutti contributi importanti.

Fonte: https://plagueandfire.noblogs.org/