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A proposito di Kavarna

...la passione per la libertà è più forte d'ogni autorità...

«Carcere delle Vallette

Sarebbe estremamente lungo e difficile esprimersi su ognuna delle innumerevoli cose dette e fatte in solidarietà nei nostri confronti. È più facile mettere insieme le suggestioni, i pensieri leggeri e quelli pesanti, un po’ di nostalgia dolce, qualche perplessità e riversare tutto su questi fogli.
Un continuo e impressionante succedersi di messaggi pubblici e privati, di inziative, prese di posizione ed azioni, individuali e collettive, hanno puntellato questi mesi. Questo flusso di affetto ci ha tenuto sempre il cuore al caldo e riempito lo stomaco di farfalle, sensazioni che a volerle descrivere mancano le parole. Nessuno di noi si è mai sentito “stremato” o fiaccato dalla detenzione. La galera è lo stesso corto circuito di logica e di umanità per chiunque ci ha a che fare e quasi tutti l’affrontano, a differenza di ciò che è successo a noi, privi di qualsiasi sostegno affettivo, economico e legale, e senza nessuno che si strappi pubblicamente le vesti.

Non c’è stato un solo momento in cui ci siamo sentiti vittime, pure se a qualcuno (incredibilmente pochi per la verità) è ingenuamente sfuggito di mano di descriverci come tali, rivolgendosi alla stampa o addirittura alla politica, alle quali non è mai stata nostra intenzione dire o chiedere niente.
(Per coerenza ed onestà non posso fare a meno di dire che provo una totale sfiducia per la categoria dei giornalisti e per quella dei politici di qualsiasi sponda o colore. Per entrambe l’unico interesse è la vendita del proprio prodotto commerciale e l’asservimento alla ricerca del consenso, adoperandosi per lo più per essere i portavoce dell’altrui cattiva coscienza. Ed entrambe, alla bisogna, possono mettersi la maschera dei sovversivi, dei sinceri democratici o dei boia a seconda del luogo e del tempo in cui si esprimono. I giornalisti che non si riconoscono in quanto appena detto sono probabilmente disoccupati, o lo saranno presto, o sono relegati ai margini della pubblica diffusione delle notizie. In ogni caso non potranno che ammettere di dividere il tetto e spesso il pane con qualunquisti, avvoltoi e sciacalli).
Scegliere di opporsi alla follia dello status quo può essere gravido di conseguenze. Non da ultimo il venire identificati come i nemici dell’umanità: malfattori, provocatori, violenti. Terroristi.
Non sentirsi vittime non significa certo accettare queste definizioni, ma riconoscere che un’ipocrisia tanto sfacciata quanto complice governa questo mondo. La stessa che riesce a chiamare “sviluppo”, la continua e progressiva distruzione delle fonti di vita di ogni specie vivente, che è pronta a mandare alla forca chi riduce in frantumi i vetri di qualche gigante dello sfruttamento (umano ed ambientale), ma che “ignora” la devastazione che l’ENI, in nome del popolo italiano, porta ovunque posa le zampe. Che si indigna e tira fuori il petto se un tutore dell’ordine (e del privilegio) si sbuccia un ginocchio, ma nasconde la testa nella sabbia quando qualcuno viene deturpato per sempre o termina la sua vita, in una caserma o in una prigione.
Eccetera, eccetera.
La realtà, senza veli, è triste e terribile. Ma a forza di guardarla bene capita anche di innamorarsi di un sogno di libertà, di autodeterminazione, di giustizia senza l’inganno della Legge, e di cercarlo ovunque si manifesti all’improvviso.
Io l’ho visto. In un Cie in fiamme. Nella fuga precipitosa di un ufficiale giudiziario che, Diritto alla mano, voleva sbattere qualcuno in mezzo a una strada. Nello sfregio ad un simbolo della disuguaglianza sociale. In una scritta sfacciata lungo le “preziose” vie del centro.
E l’ho visto sullo svincolo di un’autostrada, al tramonto, dopo tre giorni passati a dividere la rabbia e la paura per la vita di quel fratello appesa ad un filo a causa della solerzia dei servi del Tav. Migliaia di persone che sanno solo di non volersi muovere da lì. Qualcuno prepara una zuppa, altri danno fuoco a una barricata. E non solo per la polizia, è difficile identificare e capire chi fa cosa. Arrivano alla fine. Un mare di caschi blu. Inizia un lungo spingi spingi. Noi in salita, visi scoperti, disarmati. Cerco tra gli altri i volti dei miei compagni. Nessuno di noi avrebbe mai scelto di essere così vulnerabile: ad un esame di guerriglia urbana, avremmo preso zero. Ma ci guardiamo sorridendo. Intorno a noi centinaia di persone cantano all’unisono “La Valsusa paura non ne ha”. Non è incoscienza, tutti sanno come andrà a finire. Ma il tempo si fa denso, i corpi si dilatano, fondendosi, e nessuno vorrebbe essere da un’altra parte.
Vaglielo a spiegare poi a certi omuncoli di bassa statura morale che non è dentro una legge che troveranno le parole per raccontare quella bellezza. E la determinazione, e la tenacia.
Ma a quanto pare non ci fanno paura con le loro parole. Il concetto di terrorismo serve solo a prendere per il naso gli sciocchi e gli uomini di cattiva volontà. Questo è quello che è davvero successo con i nostri arresti. Non sono solo i soliti, testardi sovversivi a rispedire le accuse al mittente. Sono in molti ad annusare l’inganno e a capire dove va a parare: l’asso nella manica del terrorismo (non nuovo ad essere usato per reprimere chi lotta contro l’oppressione e lo sfruttamento e la devastazione) da applicare alle lotte sociali, et voilà. Ma la Procura, o chi per essa, fa male i suoi conti. Pensa di prepararsi un terreno su cui camminerà facilmente. Pensa di giocare d’anticipo e invece arriva troppo tardi. Ormai non c’è più modo che individui caparbi, intestarditi da un No ventennale, si facciano incastrare da qualche scaltro parolaio. E se su un piano simbolico l’accusa di terrorismo è già naufragata, potrebbe non passare neanche da un punto di vista legale. Ed è un bene che lo Stato non si fornisca tanto facilmente degli strumenti con cui terrorizzare molte lotte e molti lottatori. Non è possibile, però, ragionare molto oltre su quello che avviene nelle aule di tribunale. Non possiamo di certo aspettarci una pacca sulla spalla.
Ma la rivendicazione collettiva che si è incredibilmente dispiegata di quell’atto di sabotaggio riempie di forza. Perché siamo andati molto oltre dal dire che i terroristi sono loro. Siamo arrivati a dire che sotto quei cappucci, all’ombra di quella luna di maggio, c’erano i volti di tutti gli uomini e le donne che quel maledetto treno non lo vogliono. Le categorie di innocenza e colpevolezza scompaiono, diventano roba da scartoffie e contabili. “Quella notte c’eravamo tutti”. Nessuna sentenza potrebbe farci sentire più liberi di questa frase.
Chiara»

L’ultima occasione per salutare Chiara, Claudio, Niccolò e Mattia, prima della sospensione estiva del processo, è per mercoledì 16 luglio, alle 9, all’Aula Bunker delle Vallette. Da lì, il nostro saluto arriverà anche a Graziano, Lucio e Francesco arrestati lo scorso venerdì.

Per secoli gli ebrei hanno conosciuto la diaspora, la loro disseminazione per tutto il mondo. Privi di un territorio dove radicarsi e dove le proprie istituzioni potessero solidificarsi, gli ebrei non avevano uno Stato, ma costituivano una comunità in continuo movimento. L'attaccamento alle proprie tradizioni culturali e religiose era tale da renderne difficile, se non impossibile, l'integrazione nelle società dove si stabilivano. In un certo senso, si può dire che gli ebrei fossero stranieri ovunque si trovassero, cosa che contribuì non poco a creare diffidenza nei loro confronti (pensiamo a quel che accade ancora oggi ad una altra popolazione nomade vittima di persecuzioni, gli zingari).

Alla fine dell'Ottocento nacque il sionismo, movimento iniziato da Theodor Herzl, che voleva dare una sede nazionale agli ebrei in grado di costituire un rifugio dall'antisemitismo e dalle ingiustizie. Il sionismo mirava quindi ad offrire agli Ebrei dispersi nel mondo una patria comune in Palestina, sotto la protezione delle grandi potenze coloniali europee.
C'erano però alcuni problemi. A quell'epoca, il territorio palestinese era sotto il dominio dell'impero Ottomano ed era già abitato prevalentemente da arabi. Il motivo principale per cui il sionismo venne sostenuto dagli Stati europei, Inghilterra in primo luogo, fu perché serviva da punto di appoggio per contrastare l'egemonia turca in quell'area. Va anche detto che i fondatori del sionismo, dietro la facciata dei nobili propositi, perseguivano scopi non propriamente filantropici. Loro intenzione era soprattutto di preservare la stabilità acquisita dagli ebrei europei occidentali, di cui facevano parte, che all'epoca era minacciata dalle migrazioni degli ebrei provenienti dall'est.
Il sionismo era in altre parole un movimento nazionalista nato da preoccupazioni di classe; era il tentativo della ricca borghesia ebrea, concentrata nell'Europa occidentale, di difendersi dall'irruzione del proletariato ebreo, concentrato in oriente, il quale stava varcando le frontiere alla ricerca di fortuna e per salvaguardarsi dai pogrom. Ben presto questi ebrei poveri cominciarono a costituire un problema per gli ebrei ricchi giacché il loro progressivo aumento – nonché le loro idee fortemente socialiste – cominciava ad irritare l'opinione pubblica ed i governi occidentali, fomentando in certo qual modo l'antisemitismo. C'era quindi bisogno di mettere un freno a queste migrazioni, trovare per tutti costoro un altro posto dove andare. La scelta della Palestina si imponeva naturalmente, data la sopravvivenza presso gli ebrei orientali di una tradizione culturale basata sulla speranza messianica di un ritorno nella terra di Israele.

Per questo motivo il sionismo è stato vissuto dagli ebrei oppressi come un movimento di emancipazione, non di conquista. Si può dire che ciò che ha distinto l'impresa sionista da tutte le altre, è la straordinaria buona coscienza con cui è stata portata avanti, dato che il mito del ritorno alla Terra promessa ha aggiunto le sue esaltanti rappresentazioni a quelle, più classiche, del colonialismo civilizzatore. Molti dei coloni ebrei che misero piede in Palestina erano indubbiamente animati da nobili propositi trattandosi per lo più, o di sopravvissuti alle persecuzioni che volevano solo essere liberi, o di convinti socialisti intenzionati a costruire il "mondo nuovo" senza dover più attendere una rivoluzione sociale che tardava a mantenere le proprie promesse di liberazione. Una specie di accecamento confusionario, che ha colpito generazioni di coloni, era il prezzo da pagare per l'entusiasmante nascita di Israele con i suoi kibbutz e la sua mentalità pionieristica. Da un secolo i sionisti ricorrono a ogni genere di smentita, di mistificazione e di menzogna per nascondere ciò che fin dall'inizio saltava agli occhi: là dove si sono installati, c'era già qualcuno.

I coloni ebrei arrivati all'inizio del secolo hanno cominciato a costruire Israele su un primo mito: il deserto. Il loro slogan era «Un popolo senza terra per una terra senza popolo». Questo non significa che i sionisti fossero arrivati in Palestina credendo di non trovarvi nessuno, ma piuttosto che erano il prodotto di una cultura che dove c'erano non-europei vedeva il vuoto, dove c'erano beduini vedeva un deserto da fare fiorire, dove c'erano villaggi recalcitranti vedeva una terra da liberare.
La scoperta degli abitanti arabi della Palestina, delle loro strutture agricole e commerciali, delle loro città, dei loro villaggi, della loro cultura, e soprattutto delle loro aspirazioni nazionali, fu per gli ebrei una brutta sorpresa. Inizialmente, quando la loro presenza in Palestina non era ancora così massiccia, i rapporti che ebbero con gli abitanti arabi erano per lo più di mero sfruttamento. Gli ebrei avevano acquistato, con i denari delle casse sioniste, le terre agli sceicchi possidenti e facevano lavorare alle proprie dipendenze i contadini palestinesi. Ma questa manodopera, per altro conveniente, divenne superflua allorquando migliaia e migliaia di ebrei cominciarono a confluire in quella patria infine ritrovata, anche sotto la spinta delle persecuzioni antisemite. Nel 1904 all'interno del sionismo diventò maggioritaria l'influenza della tendenza socialista, la quale era contraria allo sfruttamento del lavoro arabo. I coloni non dovevano più fare lavorare gli arabi, sottopagandoli, ma dovevano lavorare essi stessi, con un salario pari a quello degli operai qualificati europei, nei propri kibbutz. Paradossalmente, la politica socialista del lavoro svolto direttamente dagli ebrei pose sì fine all'iniziale sfruttamento degli arabi, ma causò anche l'esclusione dei palestinesi dall'economia ebrea, preludio all'espulsione dalle loro terre. Gli ebrei avevano comprato quelle terre, gli ebrei le lavoravano: gli arabi erano diventati di troppo. I rapporti fra ebrei e arabi, fino a quel momento tesi, precipitarono definitivamente con la prima guerra mondiale, quando gli interessi dell'impero britannico si rivelarono in piena luce.

Nel 1914 l'impero Ottomano entra in guerra, alleandosi con la Germania. Nel 1915 l'Inghilterra garantisce agli arabi l'indipendenza e la sovranità, in cambio di una rivolta contro il dominio turco. Nel 1916, all'insaputa degli arabi, l'Inghilterra prende accordi con Francia e Russia per la spartizione dei territori ottomani in Medio oriente. Il 1917 è l'anno della celebre dichiarazione Balfour, con cui il segretario agli affari esteri inglese promette a Edmond de Rothschild il sostegno britannico alla costituzione di una sede nazionale ebraica in Palestina. Nel 1918 la Palestina viene occupata dalle truppe inglesi, lì giunte per consentire l'amministrazione britannica come stabilito dalla Lega delle Nazioni.
Tre anni dopo, nel 1921, la dichiarazione Balfour viene incorporata nel Mandato britannico sulla Palestina.
A quel punto la situazione non poteva che peggiorare. Gli arabi si sentirono traditi dagli inglesi che, non solo non gli avevano concesso l'indipendenza promessa, ma che per di più stavano appoggiando l'insediamento ebraico che si ingrossava ogni giorno di più; da parte loro, gli ebrei videro nell'ostilità araba null'altro che una forma di antisemitismo, avendo pagato quelle terre che erano riusciti a fare fruttare attraverso un duro lavoro. Per gli arabi, gli ebrei erano solo invasori protetti dagli inglesi. Per gli ebrei, gli arabi erano solo incivili e fanatici antisemiti. Il nazionalismo cominciò a dilagare in entrambe le parti. Le poche voci discordanti, come quella degli anarchici ebrei sostenitori di un movimento binazionale giudeo-arabo sulla base del socialismo dei kibbutz, o quella del partito comunista palestinese favorevole all'internazionalismo proletario, non vennero ascoltate e ben presto furono sommerse dall'isteria sciovinista. Le violenze diventarono sempre più quotidiane, sempre più feroci, dall'una e dall'altra parte. Le ragioni di entrambi lasciarono spazio solo ai torti. Più il tempo passava e più diventava chiaro che quella terra era troppo piccola perché ci potessero vivere due popoli: uno dei due doveva scomparire per permettere all'altro di sopravvivere.

Con la fine della seconda guerra mondiale e la sconfitta del nazismo, i sionisti riescono a fare condividere la propria visione sul futuro della Palestina all'insieme delle democrazie, giocando sulla cattiva coscienza delle classi dirigenti e delle popolazioni che, specialmente in Germania, Francia e Italia, si erano compromesse col diffondersi dell'antisemitismo. La creazione dello Stato di Israele, a spese dei palestinesi, era il risarcimento dovuto agli ebrei per le sofferenze patite – la proclamazione dello Stato di Israele avviene il 15 maggio del 1948. La creazione dello Stato di Israele, a spese dei palestinesi, stava avvenendo con le medesime modalità messe in atto dagli altri Stati capitalisti al momento della loro costituzione. La creazione dello Stato di Israele, a spese dei palestinesi, era funzionale agli interessi occidentali che propendevano per una certa instabilità in Medio oriente, pur di prevenire una possibile unificazione del mondo arabo. La creazione dello Stato di Israele, a spese dei palestinesi, rendeva felice la nutrita e ricca comunità ebraica presente in Occidente, con tutto ciò che questo avrebbe comportato in termini economici. In questo modo lo Stato di Israele venne riconosciuto da tutte le democrazie occidentali come loro simile.

Massimo rappresentante delle vittime del massimo orrore antidemocratico per eccellenza – il nazismo –, Israele può così gestire un capitale simbolico tanto più potente in quanto i paesi confinanti sono in mano a regimi dittatoriali che non esitano, all'occorrenza, a ricorrere alla violenza contro le popolazioni (in particolare quella palestinese). E poiché lo Stato d'Israele coltiva una forma di democrazia che vorrebbe assomigliare a quella dell'antica Grecia – dove la "libertà" dei cittadini si basava sulla schiavitù degli iloti – viene sacralizzato come rappresentante locale della democrazia e della ragione occidentale, baluardo contro le tenebre dell'islamismo. Lo Stato di Israele può quindi fare regnare ovunque attorno a sé il terrore, forte del suo super-diritto, gonfio della sua super-buonacoscienza. Ciò non toglie che sia condannato per sopravvivere a praticare una politica di separazione al proprio interno, e di aggressione all'esterno. Mentre il ricordo costante delle disgrazie patite nel passato dagli ebrei serve solo da giustificazione morale per coprire gli orrori compiuti nel presente.

[Fawda, aprile 2002]

...I PETI SOPRA SONO PER NOI...
Il Padanaudo, nella mitologia francoprovenzale, è un mostro a due teste. Figlio di Ortro, già guardiano a difesa di mandrie di parassiti sociali quali politici e loro sgherri, si è reso responsabile in un passato recente della reclusione di quattro anarchici accusati dell'attacco al cantiere Tav di Chiomonte durante quella splendida nottata di maggio. “Terroristi” - ha barrito il Padanaudo, ma la Corte di Cassazione lo ha preso per le lunghe orecchie e gli ha fatto fare tre giri del PalaSpataro (ex-PalaCaselli) di Torino con il Codice Penale sotto l'ascella. Come sono permalosi i Padanaaaaaudi…. e così il nostro, in un ultimo colpo di coda alla vigilia di una nuova estate valsusina, ha impartito altri ordini alla sua servitù: popopopoffare, presto, andateli ad arrestare! Dal PalaSpataro partono tanti incappucciati e si disperdono in Mediolanum e Sybar (Lécce in salentino) alla ricerca di altri pericolosi terroristi, armi alla mano entrano nelle case di sei anarchici e loro genitori e arrestano Francesco e Lucio a Milano, Graziano a Lecce. Le accuse sono analoghe a quelle che il Padanaudo ha pensato (oh-oh-oh-adesso i Padanaudi pensano...) di affibbiare a Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò, in carcere già da più di 7 mesi con la rispettabile accusa di aver osato tentare di bloccare il devastante cantiere Tav in Val Susa. Secondo l'edictum vomitato dal Padanaudo, stando ai suoi fedeli banditori, i nostri compagni sono accusati di “danneggiamento, incendio, violenza a pubblico ufficiale, dotazione e fabbricazione di ordigni esplosivi o da guerra”. Rispondere a quest'ennesimo tentativo di terrorizzare Giacu, lo spirito NoTav, è un imperativo che dovrebbe coinvolgere ognuno che ha in cuor suo, almeno, il blocco totale della devastazione e del saccheggio di un'intera vallata, e di tutti/e coloro che hanno nell'insorgenza una pratica di lotta al di fuori e contro le istituzioni. 1000 modi, un solo orizzonte!
...I PETI SOPRA SONO PER VOI...

Mediolanum, undicigiornidiluglioduemilaquattordici

Il 14 e il 16 luglio ci saranno le ultime due udienze estive del processo contro Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò, ancora in carcere dopo gli arresti del 9 dicembre, lontani dai loro affetti, dalle loro lotte e dalla loro amata Valle.
Si terranno nell'Aula bunker del carcere delle Vallette, dove da più di un anno e mezzo si svolge il processo contro 53 di noi, dal 22 maggio quello contro i 4 e dove si traducono in termini di reati e pene gli anni passati a difendere la Val Susa dal Tav e dalla devastazione e dalla militarizzazione che questa grande e inutile opera si porta dietro.
A due passi dalla tangenziale e dal termovalorizzatore, lontano dagli sguardi e dalle attenzioni, si processano alcune delle tante giornate di lotta vissute insieme, in particolare il 27 giugno 2011, giorno dello sgombero della Libera Repubblica della Maddalena, il 3 luglio dello stesso anno, giorno in cui provammo a riprendercela, e il 14 maggio dell'anno passato, notte in cui qualcuno di noi riuscì a rientrare in quell'area diventata ormai un fortino e danneggiare alcuni dei macchinari con cui stanno devastando questo territorio.
La scelta dell'Aula bunker, che, prima dei processi No Tav, ospitava solo quelli per mafia e 'ndrangheta, risponde a molteplici esigenze. Oltre a intimidire la giuria popolare, rendere più difficile il lavoro degli avvocati difensori, isolare anche in termini spaziali i nostri amici in carcere, va di pari passo con la progressiva estensione delle misure eccezionali di cui lo Stato si è dotato, giustificandole con la necessità di sconfiggere mafiosi e terroristi. Pensiamo ai processi in
videoconferenza che, un tempo usati per ragioni di sicurezza solo per gli accusati di mafia, ora vengono via via estesi ad altri imputati, o alle sezioni di Alta Sicurezza, dove hanno tenuto
rinchiusi, isolati da noi e dal resto dei detenuti "comuni", Chiara, Claudio, Nicco e Mattia. In più, come per le tante forme di resistenza e conflitto che interessano le nostre città, si cerca di allontanare le ragioni del dissenso e dell'opposizione al Tav, di portarle dal centro sempre più in periferia, di nasconderle, per fermare la loro diffusione. Perché la lotta sa essere contagiosa. E la Valle l'ha fatto vedere in tante occasioni, come i blocchi in seguito alla caduta di Luca dal traliccio, e, solo per citare le ultime giornate, il 22 febbraio, in cui, da più di 40 città abbiamo ribadito che Terrorista è chi militarizza e devasta i territori, e il 10 maggio scorso in cui lo abbiamo ripetuto ancora, tutti insieme, riempiendo le strade Torino.
L'invito è quello, il 14 e il 16 luglio, di trovarsi puntuali alle 9 del mattino davanti all'Aula bunker, in Corso Regina Margherita 540, per stare vicino ai nostri amici sotto processo, e fargli vedere che i loro tentativi di isolarli, come quelli di isolare la lotta No Tav, incontreranno sempre la nostra ostinata opposizione.
Perché da lì parte la marcia che, dal 17 al 27, da Avigliana a Venaus, attraverserà i luoghi che rischieranno di essere devastati domani da nuovi cantieri e sottoposti quindi alla stessa asfissiante militarizzazione che si respira attorno a Chiomonte. E Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò, come Paolo e Forgi, saranno anche questa volta al nostro fianco.
Perché chi lotta non verrà mai lasciato indietro.

“Tutto è nulla”

Giacomo Leopardi

L'esistenza scorre nei passaggi dell'incompiuto. Far saltare in aria certezze, per vivere all'aria aperta, è un ottimo modo per spezzare inutili chiavistelli psichici e materiali. La paura, anche. La paura, però, è nello spirito di chi trova il sentiero del crimine chiamato libertà.
La realtà e il sogno sono a doppia intensità: da una parte il male di esistere, dall'altra sabotare per vivere. Mettere in gioco la vita per non aver paura della morte, contro la sottomissione quotidiana, è il prodromo di percorsi scoscesi, quanto ignoti, nel cercare di abitare il possibile.
Le idee che rimangono idee sono l'assurdo dell'inutilità, perché si può tutto poiché non dobbiamo niente, perché il pensiero può essere una forza trasformatrice solo nella misura in cui incontra il materialismo provato della gioia.
Sulla questione della libertà, perché essa non è un gioco di amministrazione, l'errore di dettaglio, una mediazione “sensata”, un qualcosa di te lasciato a chi ordina, è già un linguaggio di potere.
Se il potere recupera, l'unico modo per non farsi risucchiare è protrarsi verso l'irreversibilità della rottura: sospensione del tempo e dello spazio, dove le rappresentazioni discendono e dove l'unicità essenziale della semplicità apre mondi inesplorati.
Per tentare, desiderare è vivere. Per vivere, bisogna soffrire.
Soffrire apre al gioco della congiura, amando gli eccessi di sé, dove spirito e sostanza non vengono divisi tra loro dallo sbirro, in divisa o interiorizzato, per perdersi nella sovversione dell'amore facendo a pezzi la morale, contro l'universo mercantile.

“Il fuoco sperimenta l'immediatezza”

Eraclito

Ciò che è non va negato in nome di ciò che era o di ciò che sarà prematuramente, ma per dare finalmente vita a tutto ciò che desideriamo e che potrebbe divenire, nelle sue smisurate possibilità.
Chi insiste a percorrere il sabotaggio dell'esistente o nel rifiutare il più possibile gli oggetti e i rapporti mercificati, lasciati a chi si accontenta di servire senza ardere nelle passioni, pretende di portare con sé la sofferenza del circostante (e quindi anche sua), un insieme demistificante di rivendicazioni e pensieri leggeri mai avvilenti, che trascina il non-essere in luoghi sconosciuti, radicandosi nelle meravigliose e sconfinate occasioni che permangono nel rifiuto; quel rifiuto che unisce i nemici di qualunque frontiera, i disertori di qualunque bandiera, aldilà del recinto della proprietà, ove comincia il paese che non appartiene a nessuno.
Per rallentare il treno ad alta velocità che è questo mondo bisogna sottrarli energia.
Per fermarlo, bisogna usare a volte sassi, a volta sabbia, per bloccarne gli ingranaggi. Ammutinamento e sabotaggio, evocano, fin da subito, ciò che non si vuole, ciò che non si è.
Il martirio non è nel rischio della diserzione da ogni ogni ordine, ma nella rassegnazione e nella noia di esistere senza darsi al rischio di praticare il proprio sé.
Molto spesso bloccare un elemento è sospendere il tutto e minare alla base le relazioni, che avvengono nei luoghi dell'oppressione, è venire a meno al patto sociale che nessuno ha mai firmato con qualsiasi stato, continente o mercante.
E' l'intensità delle nostre vite a dar forza al lungo viaggio verso l'inimmaginabile.

A.

Dedicato a Chiara, Mattia, Niccolò e Claudio, incarcerati con l'accusa di terrorismo nella lotta NO TAV