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"SABOTARE È GIUSTO, TERRORISTA È LO STATO"

Il movimento NO TAV ha lanciato un appello di lotta, su tutti i territori dal 14 al 22
novembre.
Questo presidio è stato lanciato per far conoscere a che punto è la lotta contro l'
alta velocità e il mondo che la produce.

A dicembre ci sarà la sentenza di primo grado per il processo a Mattia, Claudio,
Niccolò e Chiara, accusati di terrorismo per un sabotaggio (uno dei tanti...)
avvenuto al cantiere del TAV tra la notte del 13 e 14 maggio dello scorso anno.
A gennaio verrà emessa la sentenza del maxi-processo ai 53 NO TAV per i fatti di
rivolta del 27 giugno e 3 luglio 2011, in cui sono state richieste condanne per 200
anni di reclusione.
Il nostro pensiero va anche a Lucio, Graziano e Francesco (rinchiuso nel carcere di
Cremona), arrestati in estate con l' accusa di aver partecipato al sabotaggio del
cantiere del TAV in Val di Susa, come Mattia, Chiara, Niccolò e Claudio.

Il motivo di tanto accanimento giudiziario nei confronti degli oppositori al treno
veloce, va sicuramente ricercato nella loro capacità di scavalcare la retorica della
legalità, riconoscendo la differenza fra giusto e legale, manifestata anche in
pratiche di lotta come il sabotaggio.

In un presente caratterizzato da proteste mediatiche e rassegnazione, chiunque
osi contrapporsi ad un progetto ingiusto, senza appellarsi al politico di turno, non
può che venir schiacciato dalla macchina repressiva messa in moto da piagnistei
giornalistici e sotterfugi polizieschi.

Noi, complici, siamo solidali con chi agisce direttamente contro questo progetto di
morte.
Questo significa rifiutare e rompere con questa società, fatta di gerarchie e
autorità.

Bentornato sabotaggio compagno di lotta.
Terrorista è chi devasta e saccheggia i territori.

NO TAV

cip: 15/11/2014 Cremona

Roma – Corrispondenza da Tor Sapienza

Tor Sapienza, esempio di architettura concentrazionaria. Piccolo quartiere disperso nell’immensa periferia romana. Case popolari, edifici disposti ad anello, con un unica via di accesso ed un unico bar come punto di ritrovo. Il cento di prima accoglienza (per minori non accompagnati, richiedenti asilo e misure alternative al carcere minorile) lo hanno piazzato lì, al centro della discarica sociale costruita trent’anni fa, ma è corpo estraneo anche ai codici condivisi del ghetto, unico edificio in qualche modo collegabile allo Stato, altrimenti ritiratosi da questo suo lembo estremo. Un edificio in cui vivono dei poveri considerati privilegiati perché hanno tetto e pasti assicurati.

É in questo luogo, che martedì scorso dopo un’assemblea pubblica una parte degli abitanti ha protestato contro il centro di accoglienza ed alcuni lo hanno attaccato con bombe carta.
Il Centro non ha mai creato particolari problemi a nessuno. Parlando con persone diverse (ospiti, operatori, residenti) non è emersa una chiara causa scatenante degli attacchi. Neppure i media abituati a sponsorizzare la guerra etnica, ci hanno detto qual’è stata la “colpa” degli immigrati, se non quella di esistere.
I pochi episodi citati come “causa scatenante” non coinvolgono gli ospiti del centro: i residenti lo sanno perfettamente. Non si è verificata, da quanto abbiamo appurato, una lesione degli interessi criminali di qualche capo-zona, recondita causa di episodi similari.

Cos’è successo quindi e perché?
Ci sembra che Il centro di accoglienza sia stato individuato come anello debole, come punto facile da attaccare per rendere visibili le proprie rivendicazioni e sfogare la frustrazione.
Da quanto abbiamo appreso esiste nel quartiere un forte malessere legato alla qualità della vita ed alla mancanza di servizi. Vi è una difficile convivenza, nella comune povertà, degli italiani con gli stranieri residenti in zona, in particolare con il vicino campo nomadi. Vi è un evidente dilagare di una sottocultura razzista, malcelata dietro il solito “io non sono razzista ma …”.

Esiste poi chi questi attacchi li sta pianificando da tempo. Chi fomenta e incanala l’odio, indirizzandolo contro i poveri tra i poveri. Il tutto palesemente finalizzato al controllo sociale, ad un progetto politico di destra che ricalca modelli che hanno avuto successo in Grecia e Francia.
Dietro episodi come questo, che si stanno susseguendo sul territorio romano troviamo sempre gli stessi attori: pezzi del neofascismo e famiglie criminali fanno il lavoro sporco, comitati anti-degrado ed il partito “Fratelli d’Italia” si muovono alla luce del sole.
É l’anticipo di una campagna elettorale sporca.
É, inoltre, una battaglia che questi fascisti stanno vincendo nel momento in cui sono riusciti a determinare il terreno dello scontro: quello del degrado e della sicurezza. La sinistra, con la sua aggiunta dose di ipocrisia, insegue sullo stesso piano. Il risultato per i poveri è la repressione. Per gli immigrati in particolare, ad ogni sparata di questi “cittadini per l’ordine”, seguono retate, deportazioni nei CIE, espulsioni.

Successivamente al primo assalto, diversi solidali hanno preso contatti con questa realtà. Si tratta di un quartiere di duemila abitanti con scarsa presenza di compagni, nonostante la zona di Roma est abbia un’alta concentrazione di case occupate, centri sociali, collettivi.
Mercoledì sera, quando tutto sembrava tranquillo, si è verificato un secondo attacco. In questo caso si è trattato di un’azione pianificata compiuta da non molte persone, capaci di stare in strada e reggere gli scontri. É molto probabile che una parte degli assalitori sia venuta dall’esterno del quartiere e che vi fossero fascisti. L’attacco è stato violento ed effettuato da più lati, i ragazzi del centro hanno barricato le porte e lanciato oggetti dalle finestre per impedire l’accesso.
Alcuni solidali con gli immigrati hanno tentato di radunarsi per portare un aiuto, ma sono giunti sul posto quando l’accesso al quartiere era bloccato dalla polizia giunta in forze.
I razzisti hanno vinto questo scontro nel momento in cui hanno fatto assumere all’episodio una dimensione di carattere nazionale, garantendosi il successo del trasferimento della struttura e costruendo un precedente riproducibile a cascata su tutto il territorio. Di questo va preso atto.

Prendendo contatti con il centro, il giorno successivo, ci è stato fatto presente come la minaccia di tornare ad incendiare il posto fatta la sera precedente fosse da prendere seriamente. Nel pomeriggio, da parte degli operatori che temevano per l’incolumità degli ospiti, è stata fatta una chiamata per intervenire a difesa nell’eventualità di un attacco.
Non nutriamo simpatia per i centri di accoglienza, ma ci sembra interessante sottolineare il fatto che da un’entità legata alle istituzioni sia partito un’ appello verso verso contesti solidali, informali o antagonisti. Ci sembra che ben simboleggi il ritirarsi dello Stato, di fronte alla crisi, dalle sue diramazioni periferiche.
Questo territorio abbandonato cos’è?
É certamente un terreno su cui rischia di insediarsi la guerra civile, la barbarie dello scontro etnico. Per qualcuno è un terreno sul quale bisogna fare ritornare lo Stato, richiamandolo ai suoi doveri. Ci piace proporre un’altra lettura, più difficile da concretizzare ma molto più allettante: quella di un terreno provvisoriamente liberato, sul quale si può trovare lo spazio per costruire forme di sperimentazione, di autonomia, auto-organizzazione, autogestione. Non chiediamo nulla ma ci riprendiamo quanto lo Stato abbandona retrocedendo.

Alla richiesta di intervento, molti hanno risposto negativamente, anteponendo considerazioni di stampo strategico, che sconsigliavano di intervenire. Insieme ad altri abbiamo risposto all’appello partendo da considerazioni di natura etica. Volevamo dire a ragazzi, alcuni con alle spalle esperienze traumatiche, che fuori da quelle mura non vi era solo odio contro di loro. Queste persone erano in pericolo, noi potevamo intervenire, quindi lo dovevamo fare.
Le considerazioni strategiche le lasciamo a persone sicuramente più abili di noi.
Siamo andati in un contesto non facile, con il centro presidiato dalle polizia, ed alcuni dei solidali sono riusciti ad entrare. Il nostri bottino politico consiste nell’accoglienza e nei sorrisi sinceri che abbiamo ricevuto dai ragazzi: siamo contenti così.

All’esterno le voce dell’arrivo dei fasci si sono susseguite senza che i fasci arrivassero. Dall’alto lato della strada si è radunato un folto gruppo di persone, visto che siamo stati invitati a parlare ci siamo avvicinati. L’impressione è stata quella di trovarsi di fronte la Folla nel senso teorico del termine, con i suoi umori, la sua imprevedibilità, la sua plasmabilità. Persone che, in fondo, hanno un gran bisogno di parlare e di sfogare il loro disagio. Ci hanno identificai come “quelli dei centri sociali”, che non sanno niente, e che vengono a gettare discredito su di loro. Ci vorrebbe molto tempo per stabile un dialogo proficuo, abbiamo una forte necessità di capire, oltre ogni letture ideologica e precostituita.
Abbiamo semplicemente detto di non avere nulla a che spartire con le guardie e questo era l’unico punto d’incontro immediatamente possibile.
Parlando della famosa guerra tra poveri, abbiamo chiesto come si potesse prendersela con dei ragazzini e non con i veri responsabili del disagio che non sono certo difficili da individuare. Qualcuno ci ha risposto – parole letterali – che il centro è solo un capro espiatorio, insomma il posto giusto per fare casino, attirare l’attenzione, farsi dare qualcosa e probabilmente, aggiungiamo noi, fare un piacere a qualcuno che poi si ricorderà.

La notte è molto buia in questa via. Nei prossimi giorni giorni arriveranno i politici a farsi fare le foto davanti al trofeo. La guerra sociale, invece, riprende da domani in un punto qualsiasi qua attorno. Chi vuole star sveglio prenda il suo posto.

Roma 13-11-2014

Da notav.info:

Chiesti 9 anni e 6 mesi per i quattro notav

Ab411attentiaqueidueSiamo giunti alle richieste dei pm per il processo a carico di Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò in carcere dal 9 dicembre scorso con l’accusa di terrorismo. I pm con l’elmetto, Padalino e Rinaudo, estromessi dall’arringa finale al maxiprocesso si concentrano qui e danno sfogo a tutte le esibizioni di codici, ricostruzioni e protagonismo che non hanno potuto rappresentare nell’alto processo.

Eccoli quindi esibirsi in una ricostruzione inverosimile di quella notte e arrivare a parlare di “organizzazione paramilitare”, di attentato, di volontà di far male.

Lessico utile ad alzare il prezzo della condanna che alla fine viene formulata in 9 anni e 6 mesi per i notav. «Violenza armata e organizzata in modo paramilitare per acquisire consensi e per costringere lo Stato a retrocedere.

I due Pm (con Rinaudo in testa) hanno definito il danneggiamento di un compressore (perchè di quello si parla in sintesi) come “un atto di guerra” per arrivare ad un “attacco alla personalità dello Stato”, come se il compressore fosse Napolitano.

“Ci può piacere o no – ha argomentato sempre Rinaudo- che venga costruita questa linea ferroviaria, ognuno ha sua opinione, ma ormai quest’opera è stata decisa dallo Stato” e “attraverso queste condotte – ha detto – si attaccano scelte e interessi fondamentali dello Stato: scelte di politica economica, di politica internazionale e anche ambientali”. E gli stessi poliziotti “non sono stati aggrediti come singoli, ma come rappresentati dello stato”.

Non c’era da aspettarsi altro dal duo con l’elmetto, richieste altissime per fame di successo e credibilità e per continuare quella crociata intrapresa contro il movimento notav, alzando di volta in volta la posta, proprio mentre il “sistema tav” perde credibilità e credito giorno dopo giorno.

Non lasceremo soli, come abbiamo sempre fatto, Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò, e questa sera ci troveremo a Chiomonte, il miglior modo per dimostrare che “liberare tutti vuol dire lottare ancora”

Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò liberi subito! Libertà per i notav!

Al presidio di tre giorni e tre notti nato a Marco di Rovereto per bloccare i carotaggi legati al progetto del TAV partecipa anche un gruppo di ragazzi del luogo. Uno di loro, durante una partita a carte, dice: “Questo presidio riscatta in parte il pessimo clima che si era creato qui a Marco contro i profughi”. A luglio, con il pretesto di un tentativo di stupro, si erano espressi per la chiusura del campo profughi praticamente tutti i politici, dal sindaco PD alla Lega, dalla circoscrizione ai fascisti. I discorsi che si sentivano in piazza e nei bar avevano l’odore inconfondibile del linciaggio. Se a Marco ci fosse stata una presenza organizzata di fascisti non è escluso che avremmo assistito ad una sorta di “caccia al negro” realizzata con la partecipazione o con il consenso di una parte del paese.

Ad ottobre in tutta Italia, e anche in Trentino, i clerico-fascisti delle Sentinelle in piedi vengono duramente contestati. La “legge contro l’omofobia” presentata dal centro-sinistra viene congelata dopo un’intervista di Bressan a “Vita Trentina” in cui l’arcivescovo di Trento paragona l’omosessualità alla pedofilia.

Anche nella democratica Trento si svolgono le retate contro gli immigrati privi di documenti. L’operazione si chiama “Mos maiorum”, cioè “costumi degli antenati”. Alla polizia piace il latino. Un paio di anni prima la Digos aveva chiamato “Ixodidae” (“zecche”) un’operazione contro 43 anarchici per “associazione sovversiva con finalità di terrorismo” conclusasi con l’assoluzione degli imputati. Ma i “costumi” rimangono. Il 5 novembre, a Trento, al termine di un dibattito sullo squadrismo fascista svoltosi nella facoltà di sociologia, tre pattuglie di polizia (tra quelle presenti in città per i controlli “antidegrado” voluti dal democratico Andreatta) cercano di fermare e perquisire una quarantina di compagni, che se ne vanno in corteo per sfuggire all’accerchiamento. Nella concitazione del momento, uno sbirro dimentica il latinorum ed urla “Fermatevi, zecche!”.

Mentre in Italia la società è divisa tra le giornate istituzionali contro la violenza sulle donne e una violenza sessista che segna tragicamente la vita quotidiana di migliaia di donne, le donne curde difendono armi alla mano, a Kobane, il proprio percorso di emancipazione dall’assalto assassino dei mercenari dello Stato Islamico. La morale democratica difende le donne in quanto “vittime”. Quando le donne prendono le armi per difendersi da sole, la morale democratica invoca la polizia (globale).

Secondo Renzi è criminale affermare che gli interessi dei lavoratori e quelli dei proprietari sono divisi. È il sogno antico del capitale, il suo. Mussolini lo chiamava corporativismo. Ma non c’è politica al mondo che sia mai riuscita a cancellare del tutto la realtà della lotta di classe. Le manganellate contro gli operai di Terni, così come le uova e gli scontri che stanno accogliendo il presidente del Consiglio un po’ ovunque sono, forse, i segnali di un ritorno alla realtà dopo anni di quel fittizio organizzato che è la pace tra le classi.

È proprio questo ritorno alla realtà che democratici e fascisti cercano di scongiurare, rinnovando senza sosta “emergenze sociali” con cui sviare gli sfruttati. Dalle lame dei fascisti al manganello della polizia la politica parla la lingua dell’ordine. Persino il fiume Adige, che rischia di tracimare argini a lungo cementificati, viene chiamato da un giornalista “sorvegliato speciale da parte delle ronde di Comune e Provincia”.

Dal 14 novembre al 17 dicembre il movimento no tav della Valsusa invita alla mobilitazione diffusa sui territori in solidarietà con quattro compagni accusati di terrorismo per un sabotaggio nel cantiere chiomontino dell’Alta Velocità.
Mentre più di settecento persone hanno partecipato alla campagna di acquisto collettivo di un terreno per resistere al TAV in Trentino, e mentre tutti i giorni ci si sveglia all’alba per presidiare le zone dei prossimi carotaggi, che la solidarietà ai compagni in carcere non ci rimanga in tasca.

Ha ragione quel ragazzino di Marco. Solo le lotte riscattano le nostre vite dal clima reazionario che ci investe da destra come da sinistra.
Basta lamentele o piagnistei. Organizziamo la controffensiva.
Contro i fascisti, certo, ma anche contro il mondo che li arma e li protegge.

alcuni anarchici