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Un'Ora
Da un' idea di Giovanni Uggeri
Microconferenze, letture, autobiografie,
omaggi a, racconti, esperienze, ipotesi,
visioni
ORALITÀ, COMUNICAZIONE , CONDIVISIONE
Giovedì 6 Agosto 2015 ore 18:30
Libreria Ponchielli, piazza S. Antonio Maria Zaccaria, 10, Cremona
(e se piove? E se piove “è tempo di bagnarsi” come diceva Jack London)
“Derek Walcott”
“Il faro delle genti”
“Tesi sull'era atomica”
“Diversamente giovani”
“DEREK WALCOTT”
Derek Walcott (1930), poeta originarioio delle Indie Occidentali, è stato talmente influenzato dal patchwork linguistico tipico di quelle zone da scrivere nel poemetto La Goletta Flight a proposito di un personaggio:
ho dell'inglese del negro e dell'olandese in me
sono nessuno, o sono una nazione.
Incontro a cura di Giovanni Uggeri
“IL FARO DELLE GENTI”
Augusto Frassineti, nato a Faenza nel 1911, ha studiato a Parma e a Bologna, è vissuto a Roma dal 1945 dove è morto nel 1985. Piú che gli studi e gli incontri culturali fortunati, hanno influito sulla sua formazione di scrittore le prove e gli «spaventi» della vita: l'antifascismo clandestino, la guerra, la prigionia, poi l'immersione improvvisa nel mondo burocratico romano: un'esperienza decisiva da cui nasceva il suo primo libro, Misteri dei Ministeri .
In "Il faro delle genti", tratto dal libro "Tre bestemmie uguali e distinte" (1969), Augusto Frassineti prospetta per l'Italia la Soluzione Arcipelago, ovvero una progressiva erosione del suolo sotto l'effetto degli agenti naturali e soprattutto umani: è l'uomo infatti, e in particolare l'uomo ufficiale e incravattato, che forte di un potere rappresentativo pecca di negligenza e malizia, e prevarica su tutto e tutti. Il testo, pensato come un discorso, o un trattatello, raccoglie l'avversione totale di Frassineti per il potere tentacolare della burocrazia e le fastose retoriche italiote, restituendo al contempo un linguaggio e una struttura testuale che manda profumo di Rabelais, di cui Frassineti fu traduttore.
Incontro a cura di Jacopo Narros
“TESI SULL'ERA ATOMICA”

Günther Anders (1902 -1992), filosofo tedesco che nel 1954 ha fondato con Robert Jungk il movimento antinucleare. Nel 1959 ha pubblicato il suo diario filosofico della conferenza internazionale su Hiroshima e nel 1961 la sua corrispondenza con il pilota Claude Eatherly che guidò la spedizione per lo sganciamento della bomba su Hiroshima.

Il 6 agosto 1945 a Hiroshima fece la propria atroce comparsa un
dichiarato nemico dell'umanità: il nucleare.
A 70 anni da quel tragico evento, attraverso un compendio elaborato da
Andrea su uno scritto di Günther Anders - “Tesi sull'era atomica” - si
vuole scavare nella mostruosità di quello che comporta l'uso del
nucleare nelle nostre vite e la minaccia totalitaria che comporta.
Per chi ama la tensione verso una libertà tutta da creare è impossibile
lasciare in pace chi fa la guerra.
“DIVERSAMENTE GIOVANI”
Eleni Albarosa e Jacopo Narros leggeranno alcune pagine del libro “Diversamente giovani” di Adriana Aroldi. Questo libro parla delle cascine come luogo perduto del recente passato che rappresentano una disposizione dell'anima alla felicità: anche un lettore contemporaneo e cittadino, che mai ha vissuto in cascina, ha da imparare da questo libro di memorie attive. La vita in cascina viene rievocata nella sua quotidianità, anche spartana, come modalità di esistenza in cui il prendere è inseparabile dal dare (in fondo è vita comunitaria; alla natura). La cascina è oggetto di un recupero non tanto nostalgico e archeologico, quanto simbolico e metaforico che si può cercare e fiutare nelle nostre vite. Quel che conta è l'universalità insita nella cascina reale e storica e immaginaria, in cui si può desiderare ancora di vivere.

6 agosto 1945 - Uso del nucleare

6 agosto 2015 - Il nucleare minaccia ancora le nostre vite

Contro il nucleare sempre, lettura di critica sovversiva da scaricare e da leggere:

Guther Anders - Tesi sull'era atomica

 

http://www.autistici.org/controilnucleare/wp-content/uploads/2011/02/Tesi-sullera-atomica-pieghevole.pdf

Hiroshima come stato del mondo. Il 6 agosto 1945, giorno di Hiroshima, e’ cominciata un nuova era: l’era in cui possiamo trasformare in qualunque momento ogni luogo, anzi la terra intera, in un’altra Hiroshima. Da quel giorno siamo onnipotenti modo negativo; ma potendo essere distrutti ad ogni momento, cio’ significa anche che da quel giorno siamo totalmente impotenti. Indipendentemente dalla sua lunghezza e dalla sua durata, quest’epoca e’ l’ultima: poiche’ la sua differenza specifica, la possibilita’ dell’autodistruzione del genere umano, non puo’ aver fine - che con la fine stessa.

*

Eta’ finale e fine dei tempi. La nostra vita si definisce quindi come "dilazione"; siamo quelli-che-esistono-ancora. Questo fatto ha trasformato il problema morale fondamentale: alla domanda "Come dobbiamo vivere?" si e’ sostituita quella: "Vivremo ancora?". Alla domanda del "come" c’e’ - per noi che viviamo in questa proroga - una sola risposta: "Dobbiamo fare in modo che l’eta’ finale, che potrebbe rovesciarsi ad ogni momento in fine dei tempi, non abbia mai fine; o che questo rovesciamento non abbia mai luogo". Poiche’ crediamo alla possibilita’ di una "fine dei tempi", possiamo dirci apocalittici; ma poiche’ lottiamo contro l"apocalissi da noi stessi creata, siamo (e’ un tipo che non c’e’ mai stato finora) "nemici dell’apocalissi".

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Non armi atomiche nella situazione politica, ma azioni politiche nella situazione atomica. La tesi apparentemente plausibile che nell’attuale situazione politica ci sarebbero (fra l’altro) anche "armi atomiche", e’ un inganno. Poiche’ la situazione attuale e’ determinata esclusivamente dall’esistenza di "armi atomiche", e’ vero il contrario: che le cosiddette azioni politiche hanno luogo entro la situazione atomica.

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Non arma ma nemico. Cio’ contro cui lottiamo, non e’ questo o quell’avversario che potrebbe essere attaccato o liquidato con mezzi atomici, ma la situazione atomica in se’. Poiche’ questo nemico e’ nemico di tutti gli uomini, quelli che si sono considerati finora come nemici dovrebbero allearsi contro la minaccia comune. Organizzazioni e manifestazioni pacifiche da cui sono esclusi proprio quelli con cui si tratta di creare la pace, si risolvono in ipocrisia, presunzione compiaciuta e spreco di tempo.

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Carattere totalitario della minaccia atomica. La tesi prediletta da Jaspers fino a Strauss suona: "La minaccia totalitaria puo’ essere neutralizzata solo con la minaccia della distruzione totale". E’ un argomento che non regge.

-  1) La bomba atomica e’ stata impiegata, e in una situazione in cui non c’era affatto il pericolo, per chi la impiego’, di soccombere a un potere totalitario.
-  2) L’argomento e’ un relitto dell’epoca del monopolio atomico; oggi e’ un argomento suicida.
-  3) Lo slogan "totalitario" e’ desunto da una situazione politica, che non solo e’ gia’ essenzialmente mutata, ma continuera’ a cambiare; mentre la guerra atomica esclude ogni possibilita’ di trasformazione.
-  4) La minaccia della guerra atomica, della distruzione totale, e’ totalitaria per sua natura: poiche’ vive del ricatto e trasforma la terra in un solo Lager senza uscita. Adoperare, nel preteso interesse della liberta’, l’assoluta privazione della stessa, e’ il non plus ultra dell’ipocrisia.

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Cio’ che puo’ colpire chiunque riguarda chiunque. Le nubi radioattive non badano alle pietre miliari, ai confini nazionali o alle "cortine". Cosi’, nell’eta’ finale, non ci sono piu’ distanze. Ognuno puo’ colpire chiunque ed essere colpito da chiunque. Se non vogliamo restare moralmente indietro agli effetti dei nostri prodotti (che non ci procurerebbe solo ignominia mortale, ma morte ignominiosa), dobbiamo fare in modo che l’orizzonte di cio’ che ci riguarda, e cioe’ l’orizzonte della nostra responsabilita’, coincida con l’orizzonte entro il quale possiamo colpire o essere colpiti; e cioe’ che diventi anch’esso globale. Non ci sono piu’ che "vicini".

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Internazionale delle generazioni. Cio’ che si tratta di ampliare, non e’ solo l’orizzonte spaziale della responsabilita’ per i nostri vicini, ma anche quello temporale. Poiche’ le nostre azioni odierne, per esempio le esplosioni sperimentali, toccano le generazioni venture, anch’esse rientrano nell’ambito del nostro presente. Tutto cio’ che e’ "venturo" e’ gia’ qui, presso di noi, poiche’ dipende da noi. C’e’, oggi, un’"internazionale delle generazioni", a cui appartengono gia’ anche i nostri nipoti. Sono i nostri vicini nel tempo. Se diamo fuoco alla nostra casa odierna, il fuoco si appicca anche al futuro, e con la nostra cadono anche le case non ancora costruite di quelli che non sono ancora nati. E anche i nostri antenati appartengono a questa "internazionale": poiche’ con la nostra fine perirebbero anch’essi, per la seconda volta (se cosi’ si puo’ dire) e definitivamente. Anche adesso sono "solo stati"; ma con questa seconda morte sarebbero stati solo come se non fossero mai stati.

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Il nulla non concepito. Cio’ che conferisce il massimo di pericolosita’ al pericolo apocalittico in cui viviamo, e’ il fatto che non siamo attrezzati alla sua stregua, che siamo incapaci di rappresentarci la catastrofe.

Raffigurarci il non-essere (la morte, ad esempio, di una persona cara) e’ gia’ di per se’ abbastanza difficile; ma e’ un gioco da bambini rispetto al compito che dobbiamo assolvere come apocalittici consapevoli. Poiche’ questo nostro compito non consiste solo nel rappresentarci l’inesistenza di qualcosa di particolare, in un contesto universale supposto stabile e permanente, ma nel supporre inesistente questo contesto, e cioe’ il mondo stesso, o almeno il nostro mondo umano. Questa "astrazione totale" (che corrisponderebbe, sul piano del pensiero e dell’immaginazione, alla nostra capacita’ di distruzione totale) trascende le forze della nostra immaginazione naturale. "Trascendenza del negativo". Ma poiche’, come homines fabri, siamo capaci di tanto (siamo in grado di produrre il nulla totale), la capacita’ limitata della nostra immaginazione (la nostra "ottusita’") non deve imbarazzarci. Dobbiamo (almeno) tentare di rappresentarci anche il nulla.

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Utopisti a rovescio. Ecco quindi il dilemma fondamentale della nostra epoca: "Noi siamo inferiori a noi stessi", siamo incapaci di farci un’immagine di cio’ che noi stessi abbiamo fatto. In questo senso siamo "utopisti a rovescio": mentre gli utopisti non sanno produrre cio’ che concepiscono, noi non sappiamo immaginare cio’ che abbiamo prodotto.

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Lo "scarto prometeico". Non e’ questo un fatto fra gli altri; esso definisce, invece, la situazione morale dell’uomo odierno: la frattura che divide l’uomo (o l’umanita’) non passa, oggi, fra lo spirito e la carne, fra il dovere e l’inclinazione, ma fra la nostra capacita’ produttiva e la nostra capacita’ immaginativa. Lo "scarto prometeico".

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Il "sopraliminare". Questo "scarto" non divide solo immaginazione e produzione, ma anche sentimento e produzione, responsabilita’ e produzione. Si puo’ forse immaginare, sentire, o ci si puo’ assumere la responsabilita’, dell’uccisione di una persona singola; ma non di quella di centomila. Quanto piu’ grande e’ l’effetto possibile dell’agire, e tanto piu’ e’ difficile concepirlo, sentirlo e poterne rispondere; quanto piu’ grande lo "scarto", tanto piu’ debole il meccanismo inibitorio. Liquidare centomila persone premendo un tasto, e’ infinitamente piu’ facile che ammazzare una sola persona. Al "subliminare", noto dalla psicologia (lo stimolo troppo piccolo per provocare gia’ una reazione), corrisponde il "sopraliminare": cio’ che e’ troppo grande per provocare ancora una reazione (per esempio un meccanismo inibitorio).

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La sensibilita’ deforma, la fantasia e’ realistica. Poiche’ il nostro orizzonte vitale (l’orizzonte entro cui possiamo colpire ed essere colpiti) e l’orizzonte dei nostri effetti e’ ormai illimitato, siamo tenuti, anche se questo tentativo contraddice alla "naturale ottusita’" della nostra immaginazione, a immaginare questo orizzonte illimitato.

Nonostante la sua naturale insufficienza, e’ solo l’immaginazione che puo’ fungere da organo della verita’. In ogni caso, non e’ certo la percezione. Che e’ una "falsa testimone": molto, ma molto piu’ falsa di quanto avesse inteso ammonire la filosofia greca. Poiche’ la sensibilita’ e’ - per principio - miope e limitata e il suo orizzonte assurdamente ristretto. La terra promessa degli "escapisti" di oggi non e’ la fantasia, ma la percezione.

Di qui il nostro (legittimo) disagio e la nostra diffidenza verso i quadri normali (dipinti, cioe’, secondo la prospettiva normale): benche’ realistici in senso tradizionale, sono (proprio loro) irrealistici, perche’ sono in contrasto con la realta’ del nostro mondo dagli orizzonti infinitamente dilatati.

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Il coraggio di aver paura. La viva "rappresentazione del nulla" non si identifica con cio’ che si intende in psicologia per "rappresentazione"; ma si realizza in concreto come angoscia. Ad essere troppo piccolo, e a non corrispondere alla realta’ e al grado della minaccia, e’ quindi il grado della nostra angoscia. - Nulla di piu’ falso della frase cara alle persone di mezza cultura, per cui vivremmo gia’ nell’"epoca dell’angoscia". Questa tesi ci e’ inculcata dagli agenti ideologici di coloro che temono solo che noi si possa realizzare sul serio la vera paura, adeguata al pericolo. Noi viviamo piuttosto nell’epoca della minimizzazione e dell’inettitudine all’angoscia. L’imperativo di allargare la nostra immaginazione significa quindi in concreto che dobbiamo estendere e allargare la nostra paura.

Postulato: "Non aver paura della paura, abbi coraggio di aver paura. E anche quello di far paura. Fa’ paura al tuo vicino come a te stesso". Va da se’ che questa nostra angoscia deve essere di un tipo affatto speciale:

-  1) Un’angoscia senza timore, poiche’ esclude la paura di quelli che potrebbero schernirci come paurosi.
-  2) Un’angoscia vivificante, poiche’ invece di rinchiuderci nelle nostre stanze ci fa uscire sulle piazze. 3) Un’angoscia amante, che ha paura per il mondo, e non solo di cio’ che potrebbe capitarci.

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Fallimento produttivo. L’imperativo di allargare la portata della nostra immaginazione e della nostra angoscia finche’ corrispondano a quella di cio’ che possiamo produrre e provocare, si rivelera’ continuamente irrealizzabile. Non e’ nemmeno detto che questi tentativi ci consentano di fare qualche passo in avanti. Ma anche in questo caso non dobbiamo lasciarci spaventare; il fallimento ripetuto non depone contro la ripetizione del tentativo. Anzi, ogni nuovo insuccesso e’ salutare, poiche’ ci mette in guardia contro il pericolo di continuare a produrre cio’ che non possiamo immaginare.

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Trasferimento della distanza. Riassumendo cio’ che si e’ detto sulla "fine delle distanze" e sullo "scarto" tra le varie facolta’ (e solo cosi’ ci si puo’ fare un’idea completa della situazione), risulta che le distanze spaziali e temporali sono state bensi’ "soppresse"; ma questa soppressione e’ stata pagata a caro prezzo con una nuova specie di "distanza": quella, che diventa ogni giorno piu’ grande, fra la produzione e la capacita’ di immaginare cio’ che si produce.

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Fine del comparativo. I nostri prodotti e i loro effetti non sono solo diventati maggiori di cio’ che possiamo concepire (sentire, o di cui possiamo assumerci la responsabilita’), ma anche maggiori di cio’ che possiamo utilizzare sensatamente. E’ noto che la nostra produzione e la nostra offerta superano spesso la nostra domanda (e ci costringono a produrre appositamente nuovi bisogni e richieste); ma la nostra offerta trascende addirittura il nostro bisogno, consiste di cose di cui non possiamo avere bisogno: cose troppo grandi in senso assoluto. Cosi’ ci siamo messi nella situazione paradossale di dover addomesticare i nostri stessi prodotti; di doverli addomesticare come abbiamo addomesticato finora le forze della natura. I nostri tentativi di produrre armi cosiddette "pulite", sono senza precedenti nel loro genere: poiche’ con essi cerchiamo di migliorare certi prodotti peggiorandoli, e cioe’ diminuendo i loro effetti.

L’aumento dei prodotti non ha quindi piu’ senso. Se il numero e gli effetti delle armi gia’ oggi esistenti bastano a raggiungere il fine assurdo della distruzione del genere umano, l’aumento e miglioramento della produzione, che continuano ancora su larghissima scala, sono ancora piu’ assurdi; e dimostrano che i produttori non si rendono conto, in definitiva, di che cosa hanno prodotto. Il comparativo - principio del progresso e della concorrenza - ha perduto ogni senso. Piu’ morto che morto non e’ possibile diventare. Distruggere meglio di quanto gia’ si possa, non sara’ possibile neppure in seguito.

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Richiamarsi alla competenza e’ prova d’incompetenza morale. Sarebbe una leggerezza pensare (come fa, per esempio, Jaspers) che i "signori dell’apocalissi", quelli che sono responsabili delle decisioni, grazie a posizioni di potere politico o militare comunque acquisite, siano piu’ di noi all’altezza di queste esigenze schiaccianti, o che sappiano immaginare l’inaudito meglio di noi, semplici "morituri"; o anche solo che siano consapevoli di doverlo fare. Assai piu’ legittimo e’ il sospetto: che ne siano affatto inconsapevoli. Ed essi lo provano dicendo che noi siamo incompetenti nel "campo dei problemi atomici e del riarmo", e invitandoci a non "immischiarci". L’uso di questi termini e’ addirittura la prova della loro incompetenza morale: poiche’ in tal modo essi mostrano di credere che la loro posizione dia loro il monopolio e la competenza per decidere del "to be or not to be" dell’umanita’; e di considerare l’apocalissi come un "ramo specifico". E’ vero che molti di loro si appellano alla "competenza" solo per mascherare il carattere antidemocratico del loro monopolio. Se la parola "democrazia" ha un senso, e’ proprio quello che abbiamo il diritto e il dovere di partecipare alle decisioni che concernono la "res publica", che vanno, cioe’, al di la’ della nostra competenza professionale e non ci riguardano come professionisti, ma come cittadini o come uomini. E non si puo’ dire che cosi’ facendo ci "immischiamo" di nulla, poiche’ come cittadini e come uomini siamo "immischiati" da sempre, perche’ anche noi siamo la "res publica". E un problema piu’ "pubblico" dell’attuale decisione sulla nostra sopravvivenza non c’e’ mai stato e non ci sara’ mai.

Rinunciando a "immischiarci", mancheremmo anche al nostro dovere democratico.

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Liquidazione dell’"agire". La distruzione possibile dell’umanita’ appare come un’"azione"; e chi collabora ad essa come un individuo che agisce. E’ giusto? Si’ e no. Perche’ no?

Perche’ l’"agire"" in senso behavioristico non esiste pressoche’ piu’. E cioe’: poiche’ cio’ che un tempo accadeva come agire, ed era inteso come tale dall’agente, e’ stato sostituito da processi di altro tipo: 1) dal lavorare; 2) dall’azionare.

1) Lavoro come surrogato dell’azione. Gia’ quelli che erano impiegati negli impianti di liquidazione hitleriani non avevano "fatto nulla", credevano di non aver fatto nulla perche’ si erano limitati a "lavorare". Per questo "lavorare" intendo quel tipo di prestazione (naturale e dominante, nella fase attuale della rivoluzione industriale) in cui l’eidos del lavoro rimane invisibile per chi lo esegue, anzi, non lo riguarda piu’, e non puo’ ne’ deve piu’ riguardarlo. Caratteristica del lavoro odierno e’ che esso resta moralmente neutrale: "non olet", nessuno scopo (per quanto cattivo) del suo lavoro puo’ macchiare chi lo esegue. A questo tipo dominante di prestazione sono oggi assimilate quasi tutte le azioni affidate agli uomini. Lavoro come mimetizzamento. Questo mimetizzamento evita all’autore di un eccidio di sentirsi colpevole, poiche’ non solo non occorre rispondere del lavoro che si fa, ma esso - in teoria - non puo’ rendere colpevoli. Stando cosi’ le cose, dobbiamo rovesciare l’equazione attuale ("ogni agire e’ lavorare") nell’altra: "ogni lavorare e’ un agire".

2) Azionare come surrogato del lavoro. Cio’ che vale per il lavoro, vale a maggior ragione per l’azionare, poiche’ l’azionare e’ il lavoro in cui e’ abolito anche il carattere specifico del lavoro: lo sforzo e il senso dello sforzo. Azionare come mimetizzamento. Oggi, in realta’, si puo’ fare in tal modo pressoche’ tutto, si puo’ avviare una serie di azionamenti successivi schiacciando un solo bottone; compreso, quindi, il massacro di milioni. In questo caso (dal punto di vista behavioristico) questo intervento non e’ piu’ un lavoro (per non parlare di un’azione). Propriamente parlando non si fa nulla (anche se l’effetto di questo non-far-nulla e’ il nulla e l’annientamento). L’uomo che schiaccia il tasto (ammesso che sia ancora necessario) non si accorge piu’ nemmeno di fare qualcosa; e poiche’ il luogo dell’azione e quello che la subisce non coincidono piu’, poiche’ la causa e l’effetto sono dissociati, non puo’ vedere che cosa fa. "Schizotopia", in analogia a "schizofrenia". E’ chiaro che solo chi arriva a immaginare l’effetto ha la possibilita’ della verita’; la percezione non serve a nulla. Questo genere di mimetizzamento e’ senza precedenti: mentre prima i mimetizzamenti miravano a impedire alla vittima designata dell’azione, e cioe’ al nemico, di scorgere il pericolo imminente (o a proteggere gli autori dal nemico), oggi il mimetizzamento mira solo a impedire all’autore di sapere quello che fa. In questo senso anche l’autore e’ una vittima; in questo senso Eatherly e’ una delle vittime della sua azione.

*

Le forme menzognere della menzogna attuale. Gli esempi di mascheramento ci istruiscono sul carattere della menzogna attuale. Poiche’ oggi le menzogne non hanno piu’ bisogno di figurare come asserzioni ("fine delle ideologie").

La loro astuzia consiste proprio nello scegliere forme di travestimento davanti a cui non puo’ piu’ sorgere il sospetto che possa trattarsi di menzogne; e cio’ perche’ questi travestimenti non sono piu’ asserzioni.

Mentre le menzogne, finora, si erano camuffate ingenuamente da verita’, ora si camuffano in altre guise:

1) Al posto di false asserzioni subentrano parole singole, che danno l’impressione di non affermare ancora nulla, anche se, in realta’, hanno gia’ in se’ il loro (bugiardo) predicato. Cosi’, per esempio, l’espressione "armi atomiche" e’ gia’ un’asserzione menzognera, poiche’ sottintende, poiche’ da’ per scontato, che si tratta di armi.

2) Al posto di false asserzioni sulla realta’ subentrano (e siamo al punto che abbiamo appena trattato) realta’ falsificate. Cosi’ determinate azioni, presentandosi come "lavori", sono rese diverse e irriconoscibili; cose’ irriconoscibili, e diverse da un’azione, che non rivelano piu’ (neppure all’agente) quello che sono (e cioe’ azioni); e gli permettono, purche’ lavori "coscienziosamente’, di essere un criminale con la miglior coscienza del mondo.

3) Al posto di false asserzioni subentrano cose. Finche’ l’agire si traveste ancora da "lavorare", e’ pur sempre l’uomo ad essere attivo; anche se non sa che cosa fa lavorando, e cioe’ che agisce. La menzogna celebra il suo trionfo solo quando liquida anche quest’ultimo residuo: il che e’ gia’ accaduto. Poiche’ l’agire si e’ trasferito (naturalmente in seguito all’agire degli uomini) dalle mani dell’uomo in tutt’altra sfera: in quella dei prodotti. Essi sono, per cosi’ dire, "azioni incarnate". La bomba atomica (per il semplice fatto di esistere) e’ un ricatto costante: e nessuno potra’ negare che il ricatto e’ un’azione. Qui la menzogna ha trovato la sua forma piu’ menzognera: non ne sappiamo nulla, abbiamo le mani pulite, non c’entriamo. Assurdita’ della situazione: nell’atto stesso in cui siamo capaci dell’azione piu’ enorme - la distruzione del mondo - l’"agire", in apparenza, e’ completamente scomparso. Poiche’ la semplice esistenza dei nostri prodotti e’ gia’ un "agire", la domanda consueta: che cosa dobbiamo "fare" dei nostri prodotti (se, ad esempio, dobbiamo usarli solo come "deterrent"), e’ una questione secondaria, anzi fallace, in quanto omette che le cose, per il fatto stesso di esistere, hanno sempre agito.

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Non reificazione, ma pseudopersonalizzazione. Con l’espressione "reificazione" non si coglie il fatto che i prodotti sono, per cosi’ dire, "agire incarnato", poiche’ essa indica esclusivamente il fatto che l’uomo e’ ridotto qui alla funzione di cosa; ma si tratta invece dell’altro lato (trascurato, finora, dalla filosofia) dello stesso processo: e cioe’ del fatto che cio’ che e’ sottratto all’uomo dalla reificazione, si aggiunge ai prodotti: i quali, facendo qualcosa gia’ per il semplice fatto di esistere, diventano pseudopersone.

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Le massime delle pseudopersone. Queste pseudopersone hanno i loro rigidi principii. Cosi’, per esempio, il principio delle "armi atomiche" e’ affatto nichilistico, poiche’ per esse "tutto e’ uguale". In esse il nichilismo ha toccato il suo culmine, dando luogo all’"annichilismo" piu’ totale.

Poiche’ il nostro agire si e’ trasferito nel lavoro e nei prodotti, un esame di coscienza non puo’ consistere oggi soltanto nell’ascoltare la voce nel nostro petto, ma anche nel captare i principii e le massime mute dei nostri lavori e dei nostri prodotti; e nel revocare e rendere inoperante quel trasferimento: e cioe’ nel compiere solo quei lavori dei cui effetti potremmo rispondere anche se fossero effetti del nostro agire diretto; e nell’avere solo quei prodotti la cui presenza "incarna" un agire che potremmo assumerci come agire personale.

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Macabra liquidazione dell’ostilita’. Se il luogo dell’azione e quello che la subisce sono, come si e’ detto, dissociati, e non si soffre piu’ nel luogo dell’azione, l’agire diventa agire senza effetto visibile, e il subire subire senza causa riconoscibile. Si determina cosi’ un’assenza d’ostilita’, peraltro affatto fallace. La guerra atomica possibile sara’ la piu’ priva d’odio che si sia mai vista. Chi colpisce non odiera’ il nemico, poiche’ non potra’ vederlo; e la vittima non odiera’ chi lo colpisce, poiche’ questi non sara’ reperibile. Nulla di piu’ macabro di questa mitezza (che non ha nulla a che fare con l’amore positivo). Cio’ che piu’ sorprende nei racconti delle vittime di Hiroshima, e’ quanto poco (e con che poco odio) vi siano ricordati gli autori del colpo.

Certo l’odio sara’ ritenuto indispensabile anche in questa guerra, e sara’ quindi prodotto come articolo a se’. Per alimentarlo, si indicheranno (e, al caso, s’inventeranno) oggetti d’odio ben visibili e identificabili, "ebrei" di ogni tipo; in ogni caso nemici interni: poiche’ per poter odiare veramente occorre qualcosa che possa cadere in mano. Ma quest’odio non potra’ entrare minimamente in rapporto con le azioni di guerra vere e proprie: e la schizofrenia della situazione si rivelera’ anche in cio’, che odiare e colpire saranno rivolti a oggetti completamente diversi.

*

Non solo per quest’ultima tesi, ma per tutte quelle qui formulate, bisogna aggiungere che sono state scritte perche’ non risultino vere. Poiche’ esse potranno non avverarsi solo se terremo continuamente presente la loro alta probabilita’, e se agiremo in conseguenza. Nulla di piu’ terribile che aver ragione. Ma a quelli che, paralizzati dalla fosca probabilita’ della catastrofe, si perdono di coraggio, non resta altro che seguire, per amore degli uomini, la massima cinica: "Se siamo disperati, che ce ne importa? Continuiamo come se non lo fossimo!".


I
Il razzismo è attualmente la sola sfasatura ammessa dallo spettacolo politico: è quindi diventato, in una maniera verificata nella pratica, un soggetto puramente spettacolare. La sua posizione via via monopolistica nei falsi dibattiti ha permesso di compiere l’eliminazione di ogni questione sociale, avendole sostituite tutte. Esso rappresenta ormai il dibattito in un’epoca sprovvista di dibattito. Simula la critica in un’epoca senza critica. Fa credere che la politica esista ancora. Diventa uno dei surrogati più apprezzati del pensiero, davanti alla sua scomparsa reale.
II
In ogni epoca il razzismo è stato una questione avvelenata, fatalmente votata a veicolare e a trasmettere la falsa coscienza ideologica. In effetti il razzismo determina generalmente la posizione di coloro che si oppongono ad esso, e i suoi nemici sono così portati a fare il suo gioco. Il cretino che attacca un nero perché è nero incoraggia con l’esempio un altro cretino, che difenderà il nero perché è nero. In questo modo tutti gli elementi reali di valutazione di un individuo scompaiono a profitto di una opposizione formalista vuota, e la posizione razzista contiene e domina — di fatto e subdolamente — la posizione antirazzista. Ai neri non resta che completare questo delirio trattando gli altri da «sporchi bianchi», e diventare magari ancora più razzisti dei bianchi. L’antirazzismo è stato universalista per poco tempo, molto timidamente e solo in teoria; in pratica, si modella diffusamente sull’esempio americano, traducendosi in sordido equilibrio fra razzismi ritenuti in grado di tollerarsi fra di loro in quanto razzismi. La realtà non conta più, da qui ad esempio l’inverosimile ferocia nei rapporti che certa sinistra tende a giustificare fra immigrati, con il pretesto che questa sarebbe «culturale»; e che, immancabilmente, alimenta senza fine le proteste razziste. In un contesto così viziato, l’antirazzismo non è più della buona coscienza che vuole dissolvere una miseria particolare nella miseria universale: gli antirazzisti pensano che i neri debbano essere trattati bene quanto i bianchi, ma passano sotto silenzio il fatto che come premessa occorre che i bianchi siano essi stessi trattati male quanto i neri — per cui alla fine risulterà che i neri saranno trattati bene quanto i neri.
III
È da un pezzo che le categorie razziste non si applicano più solo alle questioni di colore di pelle o di etnia e vengono estese ad altre caratteristiche empiriche, come il sesso, l’età, il peso, le preferenze erotiche, o a pretese «culturali», come la religione, la lingua o il dialetto, l’origine territoriale, l’alimentazione, o la forma del copricapo tradizionale. È così che la ragione amministrativa conta di trionfare sull’intelligenza viva e individuale. Eccoci giunti allo stadio della conclusione di questa miserabile ragione: non solo funzionari e ideologi ci registrano come fossimo rappresentanti delle diverse categorie, ma masse compatte di prodi soldatini si accalcano ai cancelli degli uffici di registro dello spettacolo per reclamare la loro immatricolazione immaginaria. Immatricolazione che essi considerano docilmente come se indicasse la loro «natura», le loro «radici», per farla breve, come ciò che li contraddistingue e che essi intendono rivendicare come se li esprimesse. Immancabilmente, compaiono altri soldatini che li contestano e si decidono ad odiarli. La balcanizzazione dell’umanità è un metodo sperimentato per dividerla: essa ha dei bei giorni davanti a sé. I due campi che organizza, i razzisti e gli antirazzisti, si arruolano in una lite che non avrà fine perché non ha prospettiva.
IV
Questo stadio della realizzazione della ragione amministrativa è soprattutto, in effetti, quello del razzismo positivo: l’epoca non si accontenta del razzismo negativo (l’odio dell’altro), ma organizza una proliferazione molto più importante del suo correlato identitario, l’infatuazione per ciò che si considera se stessi. Il razzismo positivo è per certi versi il semplice rovescio del razzismo negativo, ma è anche la forma sotto cui quest’ultimo cova prima di scoppiare apertamente, la sua versione illusoriamente pacifica, la sua gentilezza semplicemente transitoria. Il razzismo positivo è stato sperimentato innanzitutto dai lobotomizzati antirazzisti associati del genere SOS Razzismo, a proposito delle vittime del razzismo negativo che essi si sono messi stupidamente (e cristianamente) a idolatrare; poi questo razzismo positivo ha adottato una forma egocentrica, nella misura in cui queste vittime, costantemente maltrattate e blandite al tempo stesso, hanno finito col prendere sul serio le adulazioni (per il fatto di essere stati maltrattati, sarebbero l’avvenire dell’umanità!) e per atteggiarsi a vedette. Ma le due forme di razzismo non fanno che esprimere secondo circostanze variabili l’assenza d’individualità cui gli schiavi salariati e disoccupati sono condannati, individualità che essi cercano di trovare già pronta in qualche fantasmagoria «culturale» pronta da indossare, allorché bisognerebbe crearla in una intera esistenza di libertà.
V
Nessun individuo che abbia la minima briciola d’amore per la libertà può definirsi determinista. In effetti una simile definizione, vale a dire l’accettazione e la difesa delle proprie «origini», è la manifestazione stessa dell’alienazione soggettiva dell’individuo, in quanto approvazione e duplicazione della propria alienazione oggettiva. Le «radici» sono amate dai vili, dai deboli e dai sottomessi, da quelli che aspettano di morire: esse sono considerate in grado di spiegare e scusare il loro stato di morti viventi. A forza di confondere gli uomini e gli alberi, i primi non sono più che tronchi immobili. Si tratta della posizione umana più antiumana, della posizione filosofica più antifilosofica, della concezione della libertà che più assomiglia a una cella di prigione. «È la mia cultura!», dice l’incosciente che non vuole riflettere e che vuole proibirlo anche a noi. Quanto a questa «cultura», nell’ideologia universale della nostra epoca non è altro che una cauzione radicalmente non-critica apportata ai particolarismi di ogni genere. Per compiere la sua missione puramente apologetica e mercantile essa comprende tutte le pratiche ancestrali e tutte le mode più recenti, il tutto sapientemente mescolato, finché non resta che un magma indistinto. Dopo Platone e Aristotele, si sa che lo scambio monetario e mercantile sono indifferenti al contenuto e lo rendono praticamente indifferente; l’antica cultura, foss’anche «borghese», non interessa affatto alla merce, ma ciò che le interessa è di vendere sotto questo nuovo appellativo, vuoto di contenuto, una massa infinita e indefinitamente aumentabile di gadget privi di significato ma capaci di giocare un ruolo di sostegno identificatorio. Insomma, non si vende che identità. La «cultura», che all’epoca dei Lumi significava apertura attraverso la conoscenza, è adesso sistematicamente legata a questo ripiego, con questa illusione di una «origine» o di una «natura» alla portata di tutte le borse. È «Blut und Boden», ma solo quel tanto che basta per non scatenare di colpo la Terza Guerra Mondiale.
VI
Per simulare un’opposizione ai leader reazionari più beceri, la casta politica europea benpensante rimprovera loro unicamente il loro razzismo (per esempio, il loro antisemitismo). Ecco perciò dei neonazi venire apostrofati dai democratici, i quali si limitano a domandar loro di correggere il linguaggio per venire ammessi al banchetto: dovranno solo abbandonare le loro manie razziste per diventare anch’essi dei democratici. Il nazismo si ridurrebbe all’antisemitismo, e solo a questo. Se Hitler non avesse massacrato sei milioni di ebrei, sarebbe stato probabilmente giudicato un bravo democratico. I vari leader nazionalisti possono così giocare sul velluto: prima si fanno notare per una mania pubblicamente e intenzionalmente inaccettabile, distinguendosi così dalla marea di pretendenti al potere; poi abbandonano più o meno questa mania, e rientrano nel gioco politico come trionfatori per realizzare il resto del loro programma, che viene in tal modo tacitamente ammesso. Così facendo, nessuno rimprovera loro di essere favorevoli a uno Stato poliziesco, a un capitalismo ultra-liberale, a uno sfruttamento identitario dello stupido folklore nazionale, a un conservatorismo morale muscoloso, o a un asservimento totale al lavoro, al denaro e al capitale: giacché tutti condividono questi gusti, da destra a sinistra.
VII
Prima di essere una opinione e una forma di falsa coscienza, il razzismo esiste nei fatti che l’opinione, come al solito, non fa che seguire anche quando ritiene di criticarli. L’intera pratica sociale organizza la realtà individuale e collettiva attraverso un tessuto di segregazioni di fatto che sono illusoriamente presentate e vissute come segregazioni di diritto. In questo contesto inetto ogni particolare umano è tentato a fare di necessità virtù e ad identificarsi nella sua realtà particolare. Al posto di una società in cui l’individuo è egli stesso la realizzazione centrale privilegiata, il compimento riuscito del sistema (come suggerisce l’antica nozione di praxis), e quindi il risultato più o meno ammirevole delle capacità sociali combinate, noi conosciamo solo un mondo degradato in cui l’individuo passa per un aspetto marginale, una spesa accessoria, un epifenomeno trascurabile, in confronto alla valorizzazione del capitale, la quale ha bisogno di contenere la realtà umana entro limiti razionalmente sfruttabili. Così la ben nota potenza dissolvente della merce si scontra con i suoi limiti intrinseci, almeno in termini di segmentazione della clientela e di specializzazione adeguata dei prodotti. Le categorie sono altrettanti mercati. Se la merce si è impegnata ad abbattere tutte le muraglie cinesi del pianeta che avrebbero fatto finta di resisterle, essa non può tuttavia ritrovarsi di fronte a un’umanità indistinta, in rapporto a cui non potrebbe situarsi; e questo l’ha compreso con la stessa necessità pratica. Le vecchie sfasature, sebbene sotto una forma trasformata, degradata, simulata, devono essere mantenute per la conservazione dell’ordine sociale mercantile, quanto meno per impedire l’unificazione del proletariato mondiale (nella miseria e un domani nella rivolta). Il ruolo “emancipatorio” della merce è strettamente limitato dalla propria autoconservazione. Ma per via del loro mantenimento sotto perfusione le sfasature ancestrali hanno perso la loro natura spontanea, originaria, e i loro sostenitori si trovano condannati ad una esistenza compulsiva, esasperata, istrionica. In realtà tutti i loro sforzi mirano a riconciliarli con una dimensione irrimediabilmente perduta. Le loro proteste irredentiste vanno ancora nel senso del mercato. Il razzismo stesso ha cambiato funzione. Da “politico” e “totalitario” è diventato un agente immediato del capitale. In quanto reazione identitaria, cerca di colmare la più grande debolezza del capitalismo giunto al suo stadio avanzato: quella di rivelare infine che non è capace di generare una civiltà, né una società. Un tempo si riparava dietro le vestigia d’un passato più antico, a cominciare dalla borghesia che si avvolgeva nella toga romana quando era “rivoluzionaria”, ai suoi inizi, e che si travestiva da aristocratico da macchietta, da principe della pappa molla o da re del fazzoletto di carta, quando non voleva che qualcosa si muovesse. Ma, esauriti questi remake in cartapesta, il capitale non ha altra cultura da offrire che vendere e comprare; oggi è sul punto di sputare questo amaro boccone, sperando che nel frattempo tutta la popolazione sia diventata abbastanza abbrutita per accontentarsene.
VIII
Se il razzismo in tutte le sue forme — positive e negative — è così forte nelle manifestazioni di pensiero attuale, non è solo perché esprime un mondo pratico basato sulle segregazioni di fatto (che il pensiero poi non fa altro che trasportare sotto una forma più o meno modificata). Questa sua forza la trae anche da una mancanza essenziale, che esprime a modo proprio: quella di una esistenza da liberi individui, ciò che la lingua di legno statale definisce “cittadinanza”. Cosa dicono gli attuali legislatori? Il diritto del suolo, ad esempio in Francia, permette in maniera pretesa antirazzista di considerare come “cittadino” il figlio di persone, ad esempio africane, che non hanno nessuna caratteristica dei francesi, o nemmeno di un europeo, che non ne avranno mai e che soprattutto non ne vogliono avere. Viceversa il diritto del sangue, ad esempio in Germania, rifiuta in maniera razzista la cittadinanza a persone, per esempio turche, nate in Germania e da genitori che vivono integralmente alla maniera dei tedeschi (così facendo, la legislazione tedesca contemporanea non si disfa delle proprie origini naziste). I due modi di trattamento sono chiaramente entrambi criticabili. Non è il territorio dove nasco, né il mio «sangue» (gran bella nozione!), a determinare la mia personalità. La vera questione è altrove: in cosa sono un libero individuo abitante in un paese, vale a dire una parte attiva della vita di questo paese? E di conseguenza: c’è innanzitutto un posto reale nei paesi moderni per qualcosa che assomiglia a un libero individuo? Perché, prima di chiedere come si possa diventare cittadini di un paese, bisognerebbe che questo termine avesse un senso diverso da quello oggi imperante di suddito obbediente. Il che è una questione eminentemente pratica, che la questione della nazionalità oscura costantemente.
IX
Come già detto, l’essere umano non va definito per le sue “radici”, per la sua origine, per le sue determinazioni passate, ma si definisce attivamente con la maniera in cui la sua esistenza sociale, cioè la sua vita e la sua coesistenza con altri individui, e con la loro comunità in generale, vanno concretamente a definirlo, ed essere da lui definite. Egli può esistere realmente solo esercitando in modo integrale la propria libertà di crearsi l’ambiente circostante che desidera; solo trasformando il mondo di conseguenza; solo spezzando senza compromessi il giogo della proprietà privata e dell’economia; solo vivendo con chi accetta questo progetto e lo compie consapevolmente e apertamente. Detto altrimenti, nessuno di noi e dei nostri contemporanei esiste realmente in quanto libero individuo, poiché la libertà potrebbe esistere solo a prezzo del nostro odierno modo di vivere: la nostra epoca ignora la totalità della libertà, senza eccezioni. Quanto al razzismo, non è che una scappatoia destinata a soffocare la mancanza d’una vita in libertà. Grazie al razzismo, e all’antirazzismo, una larga parte dell’umanità cerca di accontentarsi della miseria nella quale marcisce, rivendicando questa miseria come se fosse propria (o reclamando una miseria leggermente modificata, con la quale potrebbe infine identificarsi). Ma l’autoemancipazione dell’umanità può avvenire senza l’autodissoluzione delle sue categorie alienate?
X
È indispensabile sprigionare il nucleo razionale del razzismo e contrapporlo a quest’ultimo. In effetti la rinuncia alle categorie razziste non potrà avvenire da sé: nessun malato abbandona i suoi sintomi senza fare prima scoppiare la loro verità nascosta. Il modo di pensare razzista è indispensabile a un essere umano radicalmente indebolito dalla propria mancanza di libertà, dalla propria condizione di schiavo degno di servire il re di Persia. Un uomo ridotto a così poco non ha affatto i mezzi per lasciar cadere la propria illusoria consolazione: «schiavo, forse, ma di razza!». È perfettamente vano cercare di convincerlo dell’idiozia di un simile punto di vista, perché questa idiozia gli è vitale — una «menzogna vitale», come diceva Nietzsche. È solo riprendendo gusto per una esistenza di e in libertà che egli lascerà deperire queste fantasmagorie.
XI
Non è quindi l’antirazzismo che farà scomparire il razzismo, di cui in verità è solo il falso contrario, non più di quanto lo farà lo spirito di tolleranza, questa tisana dello spirito. Solo la sovversione dell’ordine esistente è in grado di riavvicinare gli individui fra di loro (al di là delle particolarità così ridotte a niente); di riavvicinare ciascuno a se stesso, alla sua natura vivente e alla sua autorealizzazione; e di riportare agli autentici obiettivi coloro che si «ingannano di rabbia».
XII
Il tasso di razzismo è inversamente proporzionale alle tendenze rivoluzionarie coscienti di un'epoca. Ai giorni nostri, la sua ampiezza traduce in forma positiva di miseria l'assenza di volontà di cambiamento. Così come il razzismo «totalitario» si era manifestato come reazione alle rivoluzioni abortite dal 1917 al 1923 in Europa e in Russia, e per meglio allontanare per sempre lo spettro di nuovi disordini sociali organizzando come antidoto dei disordini di Stato (la guerra civile contro le «razze» invalida, zingara ed ebrea; la guerra straniera contro le «razze» slava e romana), allo stesso modo l'attuale decomposizione dei conflitti sociali si scarica sulla questione avvelenata delle minoranze, povere certo, ma tenute in tale povertà da Stati del tutto spoliticizzati, a titolo di lumpen-clientelismo. Si mantiene semplicemente la divisione razzista «sul fuoco», come una possibilità permanente di appassionare le folle pro o contro questioni costantemente infra-politiche: perché lo spettacolo «politico» non ha altro obiettivo in effetti che mascherare e consolidare la scomparsa radicale della politica.
Les Amis de Némésis

D’ogni dove chiusi si sta male

Vi ricordate che vi avevamo parlato di una battitura in corso nel carcere Lorusso e Cutugno, a Torino? Mercoledì, durante un saluto ai detenuti, tra le urla “libertà, libertà” - da fuori e da dentro - e qualche petardo, si è riusciti, pur con le ovvie difficoltà, a capirci qualcosa di più.

La protesta c’è stata, ma ora è stata interrotta. I ragazzi del blocco C hanno spiegato che i motivi che li hanno spinti a fare la battitura giornaliera sono principalmente legati alle condizioni in cui sono costretti, peggiorate dal gran caldo delle ultime settimane: chiusi tutto il giorno in cella, senza possibilità di passeggiare per i corridoi, neanche durante la socialità. Non tutti i carcerati si trovano in questa situazione, solo un paio di sezioni per ogni blocco - a quanto siamo riusciti a capire, tra un grido e l’altro. Presumibilmente, questa protesta, che ha coinvolto gran parte del carcere, ha alla base una serie di motivi anche diversi tra loro (vi avevamo parlato dell’esclusione dal beneficio della “liberazione anticipata speciale”), ma tutti legati al fatto che il carcere fa schifo, e che quindi motivi per unirsi a una protesta se ne trovano, sempre.

Anche in Corso Brunelleschi il caldo peggiora la situazione dei reclusi, che attualmente sono circa 90, divisi su quasi tutte le aree. A quanto pare, le aree bianca, rossa, gialla e blu funzionano a pieno regime, mentre la verde e la viola sono parzialmente o del tutto non in funzione. Nell’area bianca è in corso uno sciopero della fame, per protestare contro le condizioni di vita all’interno del Centro e il fatto che alcuni malati vengano lasciati senza cure adeguate.

In questi ultimi tempi, i reclusi hanno a che fare soprattutto con le guardie, e meno con i lavoratori della Gepsa, che non sono molti e pare si vedano solo la mattina. Sia che debbano accompagnare fuori dal Centro qualcuno per visite ospedaliere, sia che portino in Prefettura i richiedenti asilo, i militari si muovono sempre in grandi numeri. Forse che, oltre alla consueta arroganza che non mancano mai di sfoggiare, abbiano qualche timore che ricominci il ciclo di proteste e fughe nel Cie appena ristrutturato?

Stagioni violente

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È andata come era prevedibile - e come infatti prevedevamo - l’udienza che, ieri mattina, ha segnato la fine del primo grado del processo contro la vecchia “Assemblea antirazzista”. È difficile di questi tempi, infatti, trovare a Torino giudici che abbian voglia di smentire le tesi dei Pubblici ministeri, e questi giudici non eran tra quelli in aula ieri. Sfrondata già al tempo da reati associativi, la costruzione dell’accusa è stata accolta senza batter ciglio dalla Corte, che si è limitata a limare le richieste esosissime di Padalino e compagnia.

Le richieste da cinque anni son diventate condanne da tre anni e mezzo, le richieste da tre anni, invece, un anno e nove - e così via a far proporzioni. Condanne inferiori alle richieste, ma comunque molto pesanti visto il tenore tutto sommato blandissimo degli episodi contestati. La tesi complessiva dell’accusa, fatta propria dalla Corte, è quella che ha tanto ben sintetizzato l’anonimo titolista di “Repubblica Torino” questa mattina: parlando del processo e dei fatti dai quali prende le mosse, riesce a parlare di «stagione violenta degli anarchici». Il che significa: un morto di indifferenza nel Cie; un altro ammazzato dal padrone che non lo voleva pagare; lacrimogeni sparati contro gente già tenuta in gabbia in condizioni disumane - tutte queste cose non sono violenze, son fenomeni o episodi dei quali si può al limite parlar male (giacché anche su Repubblica, negli anni successivi, si è parlato male dei Cie). È violenza invece ciò che vi si oppone fattivamente, ciò che queste violenze (che non sono altro, poi, che il manifestarsi puntuale di una violenza strutturale più vasta e profonda) cerca di impedirle: da qui gli anni di galera. Chissà che razza di titoli verrebbero fuori ai coraggiosi impiegati di “Repubblica” se dovessero parlare non degli anarchici torinesi - che alla fine han fatto ben poco e con scarsi risultati - ma, mettiamo il caso, di John Brown! Titoli sicuramente in linea con le condanne alla forca di allora. Ma lasciamo stare la razza vigliacca dei giornalisti: per il resto, l’aula era piena di pubblico, arrivato un po’ per dare un segnale d’attenzione rispetto al processo, un po’ per salutare Paolo. E Paolo era in splendida forma. E quelle lotte di allora, soprattutto, sono ancora vive.

Ascolta l’intervista realizzata da Radio Onda Rossa ad un imputato:

Lucio trasferito

A neanche dieci giorni dal suo rientro in carcere a causa di una violazione degli arresti domiciliari, Lucio è stato oggi trasferito da San Vittore al carcere di Busto Arsizio da dove era uscito lo scorso maggio.

Per scrivergli, ecco l’indirizzo:

Lucio Alberti C.C. Via Cassano Magnago, 102 - 21052 Busto Arsizio (Varese);

“L'uomo deforme trova sempre degli specchi che lo rendono bello”
Sade

In questi giorni le abbiamo viste di tutti i colori. Il presidio fascio-leghista (camicie verdi leghiste e camicie brune naziste di Casa Pound) davanti al probabile Centro d'Accoglienza di Picenengo, la propaganda razzista più forte che mai e l'istituzione comunale a braccetto, con l'assessore Rosita Viola, nel contenere una protesta mediatica e niente altro. Come Mafia Capitale a Roma, in quel presidio c'erano gli stessi protagonisti che lucrano sulle vite di migranti che scappano da posti dove il capitalismo devasta e saccheggia territori con guerre e commercio: fascisti, leghisti, PD, istituzioni pubbliche, cooperative, sbirri e giornalisti a fare il lavoro della narrazione sempre errante. Ecco il grande circo del Capitale, cioè della Mafia, tutti al fianco davanti ad un luogo cosiddetto d'accoglienza per mandare un messaggio ben preciso: questo è un mondo di merda e noi abbiamo le mani dentro la marmellata che sa di letame. Tutti insieme, uniti dalla soluzione finale: fomentare l'odio razziale in diversi modi e ripetere il putrido spettacolo, come i roghi di Treviso e i finti incidenti di Roma, di una catastrofe a portata di mano.

Purtroppo non basta lanciare messaggi di restare umani, perché qui di umano non è rimasto un granché. Bisogna approfondire la questione dei vari attori in campo.

I leghisti e i fascisti uniti nel razzismo più becero non sono una novità; il loro ruolo nella società è conosciuto, cioè essere manovalanza spendibile nella faccia (o feccia?) più brutale che provoca questo sistema: la guerra fra poveri, il nazionalismo, anche padano, che vuole dividere gli oppressi e che vigliaccamente li attacca per non scagliarsi contro quello che, questi stupidi razzisti reggono, sono anche loro: una faccia del potere di questo mondo di morte.

Poi, ci sono le cooperative caritatevoli con i loro aspiranti stregoni e preti pluripotenti, i quali lucrano sulle vite di persone che scappano da paesi martoriati, in cui le Onlus religiose fanno patti da mercante con i mercenari delle guerre e dello sfruttamento delle materie prime nel continente africano.

Chi regge tutto questo salasso esistenziale è il solito partito di potere, il PD (Potere e Denaro), il partito del massacro dei lavoratori e dei disoccupati, delle cariche nei confronti dei facchini della logistica, dei CIE, della devastazione della natura e del TAV, degli inceneritori chiusi forse nel 2025, del cemento, degli sfratti dei poveri dalle case e degli sgomberi nei confronti degli spazi sociali.

Infine, la polizia con al seguito i giornalisti nel ruolo più infimo di difendere questo ordine sociale in putrefazione a colpi di manganello, gas lacrimogeni e fotografie segnaletiche.

No, questo mondo non ci interessa, questo mondo lo vogliamo debellare dalla sue fondamenta e se il razzismo è una delle conseguenze più atroci di questo sistema lo dobbiamo combattere, per ricercare nella lotta qualcosa di totalmente altro, qualcosa per cui vale la pena vivere.

Ai migranti che sono dentro al Centro di Picenengo consigliamo di correre verso la libertà, lasciandosi alle spalle una finta accoglienza che sa solo di controllo e di schedatura.
Al potere, non ci rivolgiamo, perché la Grecia è vicina e i Cosacchi sono alle porte ma non siamo tanto stupidi da pensare che il dominio crollerà da solo.
Anche in questo caso, occorre osare, per interrompere il discorso del Potere.
Scusate il ritardo, ma la merda trangugia...

alcuni stranieri di questo mondo