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L’inaccettabilità dei fatti di Parma

-scritto aperto a tutte/i quelle/i che vogliono ascoltare-

Nessuna delle rivoluzioni che appartengono alla storia è riuscita a ristabilire la libertà dell’individualità. Tutte hanno fatto fiasco, tutte si sono concluse con un frettoloso reinserimento nella normalità generalmente ammessa. Hanno fallito perché il rivoluzionario di ieri recava con sé l’autorità. Solo oggi si scorge che il focolaio di ogni autorità risiede nella famiglia, e che il legame tra autorità e sessualità, per come si manifesta nella famiglia con la perpetuazione del patriarcato, assoggetta ogni individualità.”

Otto Gross

Qualcosa su cui interrogarsi

La questione della reciprocità delle relazioni è base necessaria per una prospettiva di liberazione senza limiti. Chi non riesce a riconoscere l’elemento patriarcale, quindi autoritario, come punto da distruggere all’interno di noi e in ciò che ci circonda come può definirsi compagna o compagno? Per questo, il silenzio sulla questione di genere, dei ruoli e la sua conseguente eteronormazione, con l’omertà che ne deriva, è elemento multiforme e dirompente che blocca una critica radicale all’esistente.

Si può definire compagna o compagno chi non ha mai ragionato sulla questione dell’autorità, sia quelle visibili che quelle nascoste? Si può definire compagna o compagno chi dice che frequentando certi ambienti, cioè quelli che si definiscono liberati, è impossibile che accadano certe cose? E’ possibile affrontare la questione della violenza di genere in una prospettiva che decostruisca l’intero mondo intorno a noi?

Quando parliamo di consenso fra due o più persone che vogliono viversi un rapporto sessuale parliamo di libertà: fare l’amore in qualunque luogo e in qualunque modo, con l’intensa reciprocità di corpi che si incontrano, per voler sperimentare quella serenità dell’attimo che è incontrarsi nel desiderio. Se manca la reciprocità prima, mentre e dopo aver fatto qualcosa insieme di sessualmente condiviso, le uniche parole che mi vengono in mente sono violenza sessuale, autoritarismo, patriarcato, machismo, supremazia di qualcuno nei confronti di qualcun altro, tutte questioni in antitesi con la libertà. Non voglio essere definito antifascista, antisessista o anticapitalista: non voglio assumere dei ruoli militanti e non voglio parcellizzare il mio desiderio. Sono anarchico e questa tensione sviluppa il mio odio contro autoritari e autorità, contro merce e capitalismo, contro lo Stato, le sue leggi e le sue polizie, e contro la cultura dello stupro, insita nell’organizzazione di questa società.

Liberare se stessi dall’idra autoritaria è il primo passo per tentare di liberarsi con gli altri.

Stupro e stupratori

Francesco Cavalca, Francesco Concari, stupratori che vivono a Parma, e Valerio Pucci, stupratore che vive a Roma, in una sera dell’anno 2010 hanno abusato e usato sessualmente una ragazza che nei momenti di quel rapporto, in ampi tratti, era diventata un corpo inerme, svilito e oggettivato da questi tre luridi personaggi.

Questo fatto è avvenuto in una sede politica. Aggravante? Può darsi, ma un abuso sessuale ovunque avviene è una questione che travalica i confini del dove per stabilizzarsi nella merda dell’atto.

Poi, negli ambienti di movimento parmensi cala il silenzio. Dopo, avviene la derisione sessista e machista: chiamando la ragazza “fumogeno”, facendo girare un video all’insaputa della stessa. In un atto sessuale di gruppo tutto dovrebbe essere fatto in condivisione. Se qualcosa viene filmato, il consenso di tutti è base necessaria. Stesso discorso se si usano degli oggetti a scopo sessuale, il consenso è imprescindibile. Se dei corpi non si incontrano nell’armonia erotica si riduce l’essere a qualcosa di non senziente, a qualcosa del tutto consumabile, come un oggetto. L’oggettivazione dell’individuo produce il corpo violentato, proprio come fa questo mondo con la maggior parte dei suoi abitanti.

Chi ha visto quel video e non si è fermato a pensare, chi ha deriso quella ragazza, chi ha consentito che tutto questo continuasse deve riflettere. Senza una riflessione, c’è collaborazionismo e non posso biasimare chi considera associati in questo letamaio chi ha consentito, oltre ai tre stupratori, che questo schifo continuasse senza fermarsi a ragionare su quello che si stava facendo, senza opporsi a quello che si stava vedendo.

Far girare un video di un atto sessuale senza consenso di tutti quelli che lo hanno vissuto è violenza gregaria e sessuale, la quale non ha niente a che fare con la libertà e la sua buona dose di violenza liberatrice contro il dominio.

Le violenze indiscriminate vengono fomentate dalle guerre e il mondo che le produce. Se in guerra tutto viene concesso attraverso il dominio e la tortura, chi vuole rivoltare la propria esistenza non può non avere come assillo, oltre che la libertà, anche l’etica. La guerra è orrore e fa parte dello stesso mondo che produce lo stupro. Personalmente non auguro neanche al peggior nemico la galera e neanche lo stupro. Chi accetta, invece, questo modo di intendere la guerra sociale sta riproducendo il potere nella sua forma più miserrima.

La coerenza tra mezzi e fini, prima di tutto!

Un corpo che viene strumentalizzato

Si sa che il corpo svilito, ridotto a cosa, può essere facilmente strumentalizzato. Succede che in questa storia orribile sbirri, fascisti e giornalisti trovino sbocchi per la loro propaganda di dominio.

Gli sbirri, naturalmente, non vedono l’ora di indagare su un tentato sabotaggio ad una sede fascista di Parma e trovarsi in mano una storia raccapricciante. E’ da questo fatto che parte l’indagine anche sullo stupro e come capitato a chi scrive questo testo (insieme a tante e tanti...), solo cinque anni dopo si viene a conoscere di cosa è effettivamente successo nella sede della RAF di Parma. Venire a sapere di questa questione delicata dagli ambiti repressivi e non dalle compagne e dai compagni è un fatto del tutto inaccettabile.

I primi che fanno vedere una serie di video della sera dello stupro subito alla ragazza, non solo quello dell’oggetto infilato in una vagina senza consenso, sono gli sbirri. Terrificante, dalla merda al letamaio...

La ragazza viene chiamata in questura come persona informata sui fatti sul tentato sabotaggio, non sullo stupro subito cinque anni prima.

Naturalmente fascisti e giornalisti prendono la palla al balzo per strumentalizzare l’intera vicenda, prima di tutto su quel corpo svilito, poi sulla violenza sessuale di gruppo avvenuta in una sede dichiaratasi antifascista (sic!).

Di conseguenza, a processo iniziato, immagino che domande potrà subire questa ragazza in un luogo infame e sessista come può essere un tribunale. Immagino già le solita retorica inquisitrice tipo: “ma lei porta la mini-gonna? Quella sera portava le calze a rete? Lei è abituata ad avere rapporti sessuali di gruppo? Ecc...”. Una schifezza immonda, il solito piano del potere per far trasformare chi ha subito violenza come potenziale corresponsabile del carnefice. La banalità del male, nella sua forma più infima.

Altro che stato, altro che dio, il corpo è mio e me lo gestisco io

Ognuno gestisce il proprio corpo come più le/gli aggrada. Da qui parte una pratica esagerata di libertà.

Chi ha deriso e usato epiteti sessisti su gusti sessuali e pulsioni passionali di una ragazza non è una mia compagna o un mio compagno. Chi ha definito questa ragazza come una puttana in senso dispregiativo è mio nemico. Chi vuole svilire le persone con termini sessisti non può stare al mio fianco. Chi dimostra una sensibilità verso l’irripetibile percorso della libertà, qualunque essa sia, dovrebbe erigere barricate contro questi atteggiamenti. Non esistono puttane o siamo tutte puttane. Ai giudizi lesivi su testicoli e ovaie, peni e vagine, istinti sessuali di coppia o di gruppo facciamo delle grandi pernacchie ed è necessario lottare affinché questo non avvenga mai più, almeno negli ambienti in cui desideriamo vivere. Chi definisce troia una ragazza riproduce questa società, la società dove le vite vengono stuprate da oppressione e sfruttamento.

Chi non vuole fare i conti con le proprie gabbie esca dal gioco della rivolta o non ne metta le cosiddette sempre schifose stellette, perché la liberazione passa anche dalla libertà di corpi che si incontrano consensualmente, in quel barlume di felicità che è l’atto sessuale libero fra uomo e donna, donna e donna, uomo e uomo, o fra tante donne e tanti uomini.

Basta sguazzare nel fango dei bisogni, diamoci al cielo stellato dei desideri.

La cultura del rimosso come foglia di fico

Esiste in questa storia un rimosso, un tragico dimenticatoio in cui finisce un momento che non vuoi più rivivere. Si è detto che la ragazza in questione abbia frequentato gli stessi ambienti e le stesse persone anche dopo lo stupro avvenuto. Questa dicitura è stata intesa e fatta passare come se questo giustificasse il fatto che di stupro non si può parlare. La megalomania di questa storia ha superato la cortina del ridicolo, imbandendo i commensali nella narrazione che tutta questa storia abbia, a quanto pare, solo un fine ben preciso: distruggere gli antifascisti di Parma. Che questo sia l’obiettivo di ogni questura, cioè fermare le lotte con ogni mezzo necessario, è una grossa banalità di base. Che questa storia abbia parti oscure, niente di più limpido.

Per questo mi faccio due domande: ma non sarà che questo fatidico movimento parmense non si sia distrutto da solo, essendo miope su questo fatto? E come mai ci sono compagne e compagni anarchici di Parma che hanno fatto sapere, anche se con un ritardo elefantiaco, del machismo e sessismo presenti nella RAF? Come mai comportarsi da branco ha distorto l’obiettivo sincero di ogni lotta che si respiri a pieni polmoni: la libertà?

Secondo me a Parma ci sono compagne e compagni di cui fidarsi, vedi chi ha scritto il comunicato intitolato “Sui fatti di via Testi”, (gli unici che si sono sempre discostati, criticandoli fortemente, dai momenti di raccolta fondi fatti a Parma per i tre stupratori, perché purtroppo è successo anche questo fatto gravissimo) degli altri mi sembra che l’enormità degli errori fin qui commessi abbiano travalicato la decenza.

Per tutti gli individui con una certa sensibilità di Parma, che non sono stati collaboratori né degli stupratori né della derisione verso la ragazza: come è possibile che i due stupratori di Parma girino indisturbati per le vie della città? Domanda atroce che ha bisogno di un sacco di risposte pratiche a cui io oggi non posso rispondere.

Subire una violenza sessuale e fare errori

Chi subisce una violenza può fare errori ed è giusto dire quello che è successo anche in questa storia. Ribadire che comunque la ragazza ha fatto una delazione non è sottrarsi allo scempio mortifero dello stupro. La ragazza in questione davanti agli sbirri ha fatto tre nomi di persone che non c’erano la sera dello stupro. Io capisco benissimo che davanti al sadismo delle questure si può essere letteralmente in mano agli sbirri. Fare dei nomi di persone che niente hanno a che fare su una questione delicata come lo stupro, però, rimane un fatto grave. Solo delle prove portate da queste persone hanno fatto luce sulla loro posizione di completa estraneità durante la serata della vergogna. Lasciare passare questa specificità, sottovalutandola, in secondo piano è molto pericoloso: non può passare il fatto che firmare contro altre persone in una qualsiasi questura non sia delazione. Ribadisco: firmare contro altre persone un verbale della questura è delazione.

Possiamo capire lo stato d’animo in cui è avvenuto il fatto, ma questo non può giustificare quello che è successo. Possiamo cercare di comprendere, sforzarci di cercare in noi delle giustificazioni, ma il fatto di vendere delle persone alla polizia, soprattutto di questi tempi dove la delazione (e conseguenti delatori) delle volte viene presa come qualcosa del passato, la quale non può avvenire nel presente in ambiti di lotta, ma che purtroppo continua ad accadere anche di recente, rimane pur sempre un fatto di una gravità pesantissima.

La ragazza in questione ha subito una situazione indicibile, nessuno può negare questo fatto. Immaginiamo per un attimo, però, se le tre persone coinvolte dalla ragazza estranee alla vicenda non fossero state scagionate. Cosa sarebbe successo? Mi sembra un’ovvietà rispondere. Per questo, se qualcuno non vuole avere niente a che fare con questa ragazza per questo fatto è comprensibile. Altrettanto comprensibile è chi vuole sospendere il giudizio su di ella perché affossato dalla gravità del fatto successo in quella sede nel 2010.

Due posizioni altamente comprensibili, lontani da chi denigra la ragazza per coprire gli stupratori. Chi ha mischiato questa ultima posizione inaccettabile con le prime due citate (diserzione dalla ragazza perché c’è stata una delazione e sospensione del giudizio per il fatto gravissimo dello stupro) si deve assumere il fatto di aver scritto e detto cose inesatte, quasi sensazionali da propaganda giornalistica. C’è una barricata ben visibile tra le prime due posizioni che entrano nella dimensione dell’etica e la terza, in cui l’unica dimensione che vedo è quella di un comportamento del tutto inaccettabile.

Chi non vuole avere niente a che fare con la ragazza non è amica o amico degli stupratori, perché se si riconosce la violenza sessuale subita siamo su un piano diversissimo di chi ha minacciato, aggredito e offeso la ragazza per coprire il fatto di quella sera e le sue inevitabili conseguenze.

Proposte concrete tra riflessioni e diserzioni possibili

Voler vivere luoghi dove cospirare contro l’esistente, non essere funzionali ad esso, sembra un’ovvietà, ma purtroppo non lo è. In questi luoghi si possono far entrare degli stupratori? Logicamente la risposta è no, quindi credo che sia del tutto consequenziale che i tre stupratori di Parma non dovrebbero entrare mai più in luoghi di movimento e partecipare a momenti di lotta.

Reprimere i propri desideri per farsi accettare dal cittadino qualunque è logica di potere. Luoghi di sovversione, non sezioni di partito. La sovversione non ha niente a che fare con chi stupra e difende gli stupratori. Lo sguardo sovversivo dovrebbe tendere alla vita, non alla mera sopravvivenza. Entrare nei calcoli indigesti per mettere da parte la qualità delle relazioni di affinità è un salto nel fango della politica. Preferisco il pane e le rose.

Ammetto anche un’altra questione: non riesco a redimermi come stanno facendo alcuni in modo pretesco. Rimango dell’idea che la delazione è una cosa su cui non si possa tornare indietro. Per questo, la mia posizione sulla ragazza che ha subito lo stupro rimane quella dell’estraneità, della distanza e della lontananza. Non voglio essere nessuno che non sia io, ma vorrei che le persone che si sono rese responsabili della violenza sessuale sentano ogni giorno della loro vita diserzione e odio per quello che è successo, da chi è realmente contro lo stupro e il suo mondo.

Grande è il mio stupore per alcuni comunicati letti fino adesso ed è per questo che un’esperienza di discussione collettiva su questo fatto sarebbe del tutto auspicabile. Se le 4 crepe hanno avuto il merito di far uscire dall’ignobile torpore questa storia, questo non vuol dire che non esistano compagne e compagni che vogliano andare ancora più in profondità su quello che è avvenuto, nella sua totalità.

La propria sensibilità è terreno di scontro non di cura, tensione che vuole oltrepassare la miseria, non riprodurla. La sensibilità distrugge i ruoli e le manfrine ideologiche che castrano le passioni, che separano i corpi, che negano la reciprocità trovata solamente in certi rapporti. Condividere le proprie ricchezze e saperle amare, per non accumulare le miserie di questo mondo mercificato, dove il corpo viene normalizzato e reso oggetto.

Contro lo stupro delle vite, contro i suoi complici sempre; ma la mia passione per la libertà non farà mai rima con delazione, perché il percorso per liberarsi da questo mondo ignobile è l’unico luogo in cui sto a posto con i miei demoni.

Cremona, gennaio 2017

Un individuo che cerca di essere antiautoritario

Fonte: http://www.informa-azione.info/

manifesto-web

Pubblichiamo qui due testi su deportazioni e seconda accoglienza (qui la versione stampabile dei testi, qui quella del manifesto)

DEPORTAZIONI

Dalle frontiere ai CIE, i vari Stati europei mettono in campo nuove forme di spostamento e controllo delle persone che vogliono ridurre a merce-migrante.

Da un lato le espulsioni e i rimpatri, frutto di oculati accordi politici ed economici tra Stati, dall’altro il continuo e ripetuto spostamento dai territori di frontiera, verso i vari centri hotspot del sud Italia, ulteriore luogo di differenziazione e smistamento di chi viaggia senza passaporto.

Possiamo quindi osservare lo stabilizzarsi di un sistema che agisce sul controllo dei flussi migratori, trattando questi individui come oggetti che vengono ammassati in luoghi di confine, catalogati e filtrati a seconda della domanda e dell’offerta del Capitale: migrante economico o semplice profugo, funzionale o non funzionale, possibile schiavo di riserva o semplice merce avariata da rispedire al mittente. Avvenuta questa prima classificazione, i selezionati vengono quindi ridistribuiti chi nel circuito dell’accoglienza, chi in quello dell’espulsione.

Di questa seconda categoria una parte consistente viene rilasciata sul territorio statale con decreto d’espulsione alla mano, in attesa di un nuovo possibile utilizzo che sarà senz’altro agevolato dall’estrema ricattabilità che queste persone subiscono all’interno di questo loop di respingimento (in frontiera) e internamento (negli hotspot).

È necessario leggere questo fenomeno come un’applicazione su scala umana dei rimodellamenti strategici del sistema capitalista, al fine di distruggerlo.

Molte sono le analogie riscontrate tra lo spostamento delle merci e quello della gente.

Aziende come Frontex (ora Guardia Costiera e di Frontiera Europea), con la complicità di Polizia e CRI, seguono e monitorano il flusso delle persone migranti sin dal loro arrivo dalle coste del nord Africa o dal medio Oriente: dal loro accompagnamento forzato nei centri, alla loro identificazione, al prelievo delle impronte digitali, al tracciamento di chi emigra nell’UE tramite la subdola pratica della relocation, al rimpatrio di rifugiati politici in stati terzi non sicuri.

Ogni impronta digitale estorta in questo processo di oggettificazione dei corpi è inserita in Eurodac, database europeo con base in Lussemburgo, dove vengono stoccate tutte le impronte delle persone migranti identificate all’interno o lungo le frontiere degli stati appartenenti all’UE. Il tutto viene presentato come norma di prevenzione al pericolo: la libertà di movimento di chi vive la clandestinità è pericolosa, il fatto che possa richiedere asilo in più paesi è pericoloso.

Nei progetti gestionali di questo nuovo capitale umane, nella sempre più serrata applicazione di questa logistica dei corpi, rientra anche la tecnologia RFID, cioè l’assegnazione ad ogni persona migrante di un badge con microchip che faciliti la localizzazione, e quindi il monitoraggio degli spostamenti e l’identificazione rapida.

Questo sistema gestionale rimanda, neanche troppo lontanamente, a quello usato per la classificazione degli internati nei campi di concentramento della Germania nazista, sistema che a suo tempo fu sviluppato da IBM.

Questo tipo di tecnologia, sviluppato inizialmente in ambito militare durante la seconda guerra mondiale, oggi lo si ritrova applicato ad ogni forma di logistica commerciale, dallo stoccaggio allo spostamento dei prodotti, agli antitaccheggio, ai sistemi di pagamento, fino ad arrivare ad utilizzi civili tra i quali sistemi bibliotecari, registri nelle scuole, tessere sanitarie etc.

L’analogia fra uomini e merci, sempre più evidente, si riflette quindi su vari aspetti, da quelli più propriamente materiali e logistici, ad altri che potremmo definire linguistici o immaginifici.

La collaborazione tra Stato ed enti privati offre un immaginario più tollerabile ed edulcorato di quella che altrimenti sarebbe una pratica militare, attraverso la quale emergerebbe agli occhi di tutti la natura disumanizzante e coercitiva dell’apparato statale. Quale sarebbe il clima percepito nel vedere queste persone caricate e trasportate su mezzi dell’Esercito, piuttosto che a bordo di anonimi pullman (Rampinini) di aziende ben integrate nella cosiddetta società civile?

Di più. Offrire appalti ad agenzie private muove capitali e crea lavoro, rinsalda la connivenza tra Stato e padroni, che inseriti in questa dinamica di sfruttamento, si rafforzano e legittimano reciprocamente.

Grazie a questo approccio si costruisce ed utilizza un linguaggio che parla di spostamento invece che di deportazione. Distorce la percezione del reale, avvalora la rappresentazione di uno Stato capace di risolvere delle emergenze, distogliendo l’attenzione dal processo di frammentazione sociale che mette in atto.

Non ci sembra così lontano dal meccanismo per il quale termini come flessibilità sostituiscono parole come sfruttamento.

Altri attori di questa strategia di ricostruzione linguistica e immaginifica, sono tanto i classici media, quanto associazioni come Caritas e CRI.

Viene così costruita una narrazione dove i migranti risultano essere individui privilegiati, anteposti ai cittadini italiani. Tutta questa propaganda razzista, atta a fomentare la guerra tra poveri, è spinta dai media e dalla stampa ma con l’appoggio diretto e complice delle sopracitate associazioni. Dietro alla loro maschera bonaria e caritatevole si nasconde l’ennesimo tentativo di controllo e gestione. Divulgando strumentalmente i dati sulla quantità dei soggetti accolti e ospitati nei vari centri, dei pasti serviti, e l’aumento di cittadini italiani che richiedono aiuto rispetto a chi non lo è, aiutano a creare quel clima d’emergenza che porta odio e tensioni, distogliendo l’attenzione da chi di odio e tensioni si serve per meglio controllare lo stato attuale delle cose.

A fronte di queste riflessioni, sicuramente parziali, vogliamo interrogarci sulla possibilità di inceppare questi meccanismi e rendere evidenti la miseria della mercificazione dell’essere umano quanto la brutalità del suo controllo.

SECONDA ACCOGLIENZA

Nei mesi scorsi ci siamo trovati ad affrontare discorsi ed esperienze che riguardano il sistema della seconda accoglienza e il rapporto instaurabile con le persone inserite in queste strutture. Sono nati interrogativi molto ampi e spesso scivolosi, considerando la visione nostra del mondo che ci circonda.

Il primo luogo che un migrante conosce, appena arriva in Italia, è l’hotspot. Attualmente ne sono attivi 5 : Trapani, Pozzallo, Lampedusa, Porto Empedocle e Taranto.

La loro funzione è quella di raccolta dati quantitativa e qualitativa sulle persone migranti ed il loro smistamento nei centri sparsi per il territorio.

L’hotspot, tappa forzata e necessaria al controllo del flusso migratorio, assume una funzione analoga a quella di un centro logistico.

L’intero sistema è basato su requisiti specifici, paese di provenienza e accordi internazionali, che le persone devono avere per accedere all’iter che dovrebbe concedere la permanenza sul suolo italiano. L’attesa, in condizione semi-detentiva, può durare anche anni e le persone attendono una decisione arbitraria che viene presa sulla base di convenienze economiche e politiche.

La carta è solo carta? Certo. Ma è possibile per chiunque prescindere dall’avere un documento in un simile sistema?

Ci siamo chiesti se sia possibile fare in modo che nei nostri territori ci siano le condizioni per permettere alle persone di sfuggire al sistema dell’accoglienza, e decidere di fare a meno di un pezzo di carta.

Nei centri di seconda accoglienza (CAS, SPRAR e CARA), quasi sempre situati in luoghi isolati e controllati da telecamere, gli “ospiti” sono obbligati a rispettare degli orari di uscita e di rientro; non hanno possibilità di svolgere alcuna attività se non ricreativa all’interno del centro; l’insegnamento della lingua, quando previsto, è approssimativo e privato di ogni interazione con l’esterno, volto quindi al mantenimento dell’isolamento. La fornitura di cibo è spesso scadente e vissuta in maniera passiva; viene trascurato l’aspetto igienico delle strutture, all’interno delle quali non vengono comunicate nemmeno informazioni di carattere generale (per esempio come fare in caso di bisogno di cure mediche).

In sostanza le persone si trovano come pesci in un acquario, succubi di un processo di infantilizzazione: vengono trattate come incapaci di prendere decisioni e autodeterminarsi.

Di conseguenza le proteste messe in atto riguardano rivendicazioni più o meno parziali, come la qualità del cibo o l’accelerazione della burocrazia per l’ottenimento del permesso di soggiorno.

Ci chiediamo se e come è utile sostenerle. Ci troviamo di fronte ad un bivio che presuppone visioni differenti.

Quali sono i limiti nel sostenere delle proteste parziali? Considerando anche la possibilità (e il rischio) di doversi relazionare con le istituzioni.

Possono essere un punto di partenza utile per instaurare delle relazioni, oppure solo un approccio scivoloso che rischia di presentarci per quello che non siamo, legittimando l’esistenza di questi spazi. Non crediamo nell’istanza della “buona accoglienza”, ma ci rendiamo conto dell’empatia che si può provare nei confronti di persone che vivono in simili condizioni.

Se l’obiettivo è la distruzione del sistema accoglienza, come si possono fare i conti con le condizioni effettive in cui vivono i migranti nei centri?

C’è da considerare inoltre il ricatto interno ed esterno. Da parte dei gestori è la minaccia di esclusione dal sistema sulla base di comportamenti non graditi. Da fuori, complici i media, la costruzione di una narrazione per cui i migranti diventano individui privilegiati in una guerra tra poveri e devono sentirsi grati e fortunati, delegittimando così a priori una qualsiasi possibilità di protesta.

Per fare un’analogia consideriamo il carcere: un luogo da distruggere, all’interno del quale i detenuti mettono in atto proteste per migliorare le loro condizioni, ma noi ci sentiamo ugualmente di sostenerle da fuori. Il discorso è equiparabile?

Visto il paragone e i nodi da sciogliere, ci siamo interrogati sulla possibilità che la centralità delle pratiche fosse il nodo cruciale della questione.

Ma è sufficiente non perdere di vista l’obiettivo?

Oggi, 13-12, l’inizio del secondo grado di giudizio per i fatti riguardanti la stupenda rivolta del 24 gennaio a Cremona, è (già) finito confermando l’accusa di devastazione e saccheggio per tre dei quattro imputati.

Per tre imputati (tra cui il delatore Aioub Babassi) è stata confermata la devastazione e saccheggio, con una pena di 3 anni e 8 mesi. Inoltre, è stato confermato il risarcimento per il Comune di Cremona per un totale di 200mila euro. Invece per l’ultimo imputato dei quattro è caduta l’accusa più pesante con la condanna a 2 anni e un mese per resistenza aggravata.

Inoltre, al tribunale di Cremona, si è chiuso il primo grado con la sentenza di 9 mesi per oltraggio per l’ultimo imputato, purtroppo infamato dal delatore.

Il primo dato da constatare a caldo è che tra fine primo grado e chiusura di metà del secondo, per cinque imputati su otto viene a cadere l’accusa di devastazione e saccheggio, per la giornata del 24 gennaio a Cremona.

Sicuramente queste sentenze non possono spegnere lo spirito di ribellione e di solidarietà espresso durante il 24 gennaio, perché non può esistere solidarietà senza rivolta.

Dato che in alcuni casi il comportamento degli imputati è stato del tutto deplorevole (prese di distanza con la rivolta in solidarietà ad Emilio e l’inaccettabile infamia), il nostro pensiero e la nostra complicità va alle compagne e ai compagni di Torino arrestati oggi per aver disertato l’ordine di lasciare la città piemontese, assumendosi il fatto di non rispettare i divieti di dimora.

Questi gesti ci scaldano il cuore e ci fanno capire come la generosità e la risolutezza di lottare contro un mondo iniquo e oppressivo possano essere parte fondamentale per aprirsi a percorsi di libertà.

Alcune/i antifascisti/e di Cremona